Non capita tutti i giorni di aver l’opportunità di parlare del mondo dei media e della qualità dell’informazione con un giornalista a 360 gradi come lo è Paolo Rossi Castelli: ex-collaboratore del principale quotidiano italiano, Il Corriere della Sera, e della Gazzetta dello Sport nonché consulente scientifico per diversi programmi televisivi – è stato uno degli autori del programma “La macchina del tempo” per l’azienda Mediaset. Attualmente, Paolo Rossi Castelli si confronta quotidianamente con il mondo giornalistico online, scrivendo di tematiche scientifiche e ricoprendo il ruolo di responsabile dei contenuti del sito Ticino Scienza.
Paolo Rossi Castelli, vorrei partire da un’osservazione: il fatto che oggi il successo di un giornale non si misura più termini di tiratura e copie vendute ma in base al numero delle visite al sito e ai like, condivisioni e commenti sui social network. Secondo lei, la qualità dell'informazione è a rischio?
Le regole del buon giornalismo dovrebbero rimanere intatte, sulla carta stampata, sui siti web, i social, la radio, la televisione, e anche sulla “radiovisione”, come la chiamano adesso (i canali televisivi sul web di alcune emittenti radiofoniche). Dunque, dovrebbero essere sempre attivi gli ingredienti classici: controllo molto attento delle fonti, spazio a chi la pensa in un modo ma anche nel modo contrario (per consentire al lettore/utente di farsi una propria idea), notizie ben separate dalle opinioni, una buona qualità della scrittura, criteri chiari per la scelta degli argomenti (insomma, una ben precisa linea editoriale). Poi, naturalmente, ogni testata, piccola o grande, dovrebbe cercare di arrivare prima degli altri, sugli avvenimenti di cronaca, in una sana competizione, ma senza l’esasperazione che adesso sta attraversando il mondo dei media (soprattutto quello delle grandi testate). La velocità sembra, ormai, la caratteristica principale, e dunque si preferisce arrivare prima, subito (pochi minuti, o addirittura pochi secondi, dopo un evento importante), anche trascurando la qualità della scrittura e la verifica delle fonti.
A proposito di lingua: c’è chi guarda con una certa inquietudine l’avanzata dell’italiano digitato e denuncia l’impoverimento linguistico dell’informazione online. Lei concorda con questa preoccupazione?
Nelle vecchie redazioni dei giornali cartacei c’era una forte attenzione alla qualità della scrittura, e ogni giovane giornalista doveva sottostare alle forche caudine del caposervizio che gli leggeva i pezzi, e poi del caporedattore e del direttore. Sbagliare un nome, l’età di una persona, una qualifica, o inserire troppe ripetizioni, o comunque creare un linguaggio “faticoso”, provocava rimproveri e sanzioni. Non era sempre facile “scrivere bene”, dovendo confezionare ogni giorno decine e decine di pagine, ma era comunque un “dovere” richiesto fortemente, anche in certi periodici “leggeri”: se Lei va a guardare le vecchie annate del settimanale “Oggi” (Rizzoli editore), per esempio, troverà uno stile di scrittura inaspettatamente curato, elegante, da narratori. Adesso questo non è più richiesto, credo, nel nome della velocità. Le notizie si intrecciano molto, poi, ai video, anche brevissimi, e stanno nascendo nuove figure professionali, molto più agili, ma anche molto lontane dai giornalisti vecchio stile, che limavano e rilimavano i loro articoli. Certo, rimangono testate di alta qualità, con una cura notevolissima per la scrittura (penso all’edizione online del New York Times, o al settimanale tedesco Die Zeit). E anche in Ticino è elevata la qualità della RSI, del Corriere del Ticino e della Regione, e di altre testate. Ma la domanda, da parte di tantissimi lettori/utenti è cambiata: le notizie devono essere rapide, possibilmente abbinate a video, e devono incuriosire, stupire, se possibile divertire. La qualità della scrittura, forse, non è più considerata un valore imprescindibile, sui giornali e in Tv.
Tornando invece alla questione della qualità dei contenuti, è un problema il fatto che l’informazione online responsabilizzi, in qualche misura, l’utenza, che è chiamata ad approfondire in modo autonomo le notizie date, spesso, brevemente sui canali web?
Penso lo possa essere. Come già ricordato, la velocità caratterizzante le notizie online va a discapito del tempo per sentire anche la parte avversa, o comunque la controparte, chi la pensa in un modo diverso. Dovendo andare online, o sui social, rapidissimamente, si trascurano gli approfondimenti, o si rimanda ad articoli/post successivi. Ma non tutti i lettori, poi, vanno a cercarli. Ed è anche vero che il grado di attenzione dei lettori stessi, secondo molte rilevazioni, è limitato a notizie estremamente brevi e veloci. Ben pochi sono disposti a leggere testi che richiedano più di uno/due minuti. A ciò si aggiunge la cosiddetta informazione-fai-da-te, che è esplosa grazie ai social (prima, invece, chi voleva creare un proprio mezzo alternativo di informazione poteva usare soltanto il ciclostile, o poco più…), ma è spesso completamente fuori controllo, come sappiamo, anche su temi delicatissimi – come il Covid, il razzismo o questioni medico-scientifiche – dei quali si può leggere su diverse pagine online la cui autorevolezza e veridicità è però dubbia.
È questa una tendenza che investe solo le nuove generazioni?
Non direi. Prove ne è che negli ultimi anni i giornali cartacei hanno perso un’enorme quantità di copie, anche se in Ticino, mi sembra, questa tendenza è molto meno accentuata e rapida, rispetto alla vicina Lombardia. Certo, le persone con meno di 35 anni proprio non comprano più i quotidiani cartacei (forse non ne hanno mai preso in mano una copia), ma anche gli utilizzatori tradizionali “scivolano” sempre di più verso le versioni digitali. Questo comporta un problema immenso per gli editori: quello della redditività. Perché, come sappiamo, sull’online le persone non vogliono spendere, per l’informazione, e accettano a fatica di sottoscrivere anche solo mini-abbonamenti di pochi franchi, o pochi euro. A maggior ragione gli investitori (le aziende) hanno colto l’occasione per pagare cifre molto più basse, quando decidono di fare pubblicità, rispetto alle tariffe sul cartaceo. Così si è arrivati al paradosso che molte testate storiche, nel mondo occidentale, hanno più lettori adesso, sull’online, rispetto a quanti ne avessero prima sul cartaceo, ma guadagnano molto meno.
A fronte di una rete dominata da colossi dell’hi-tech e in cui proliferano fenomeni come le fake news e gli odiatori da tastiera, lei pensa che non vi sia un futuro migliore per internet?
Internet offre possibilità enormi di informazione e di crescita. Inoltre, la diffusione delle notizie al di fuori dei canali tradizionali, tramite i social e le testate web, sta aiutando in alcuni casi anche chi si batte contro governi autoritari: non per niente un dittatore come Aleksandr Lukashenko, in Bielorussia, si è particolarmente accanito contro i blogger o anche contro semplici cittadini che esprimono il loro dissenso su Telegram. Mi sono chiesto molte volte cosa sarebbe successo se, durante il nazismo, fossero esistiti i social e Internet. Certo, poi però c’è anche l’altra faccia della medaglia, e i social vengono usati anche contro la democrazia (penso all’assalto del Campidoglio, a Washington), e naturalmente va considerato il grandissimo numero di persone che usano i social, accessibili a tutti e gratuiti, per spargere più in generale violenza, inasprire atteggiamenti di intolleranza, diffondere paure.
Lei ha lavorato per Mediaset, la grande azienda radiotelevisiva privata italiana. Non posso non chiederle che rapporto abbia con il servizio pubblico - svizzero nello specifico - e che cosa dovrebbe fare per differenziarsi maggiormente dal privato.
Quello che è avvenuto nei decenni scorsi in Italia insegna che il servizio pubblico radiotelevisivo non deve mettersi a rincorrere i grandi gruppi privati, come la RAI ha tentato di fare per un certo periodo con Mediaset, avventurandosi in quel mondo “frivolo” che si addice pochissimo all’Ente di Stato. L’emittente pubblica riceve un finanziamento notevole e deve svolgere sempre meglio quel suo mandato, lasciando ai privati altri versanti. È vero che anche la RAI, o la RSI, devono trasmettere film e fare intrattenimento, ma l’impronta, secondo me, deve rimanere diversa. Se la RAI si mettesse a produrre qualcosa di simile a “Temptation Island” sarebbe ridicola, e probabilmente avrebbe ascolti molto più bassi di Mediaset. In Ticino, poi, la radiotelevisione pubblica offre un servizio fondamentale di riferimento per la comunità italofona, che non viene rappresentata, se non in modo ultra-sporadico, sui media italiani. La RSI offre prodotti editoriali di valore molto elevato, e deve continuare su questa strada (lo dico da spettatore/utente radiofonico affezionato). Il ruolo dell’informazione pubblica resta quantomai importante, anzi lo è sempre di più, perché l’unico modo per tentare di arginare il caos informativo è quello di fornire punti di riferimento sicuri, ben documentati, presentati bene, firmati da persone autorevoli, trovando al contempo forme sempre più contemporanee per diffondere i servizi giornalistici.
Di Valeria Camia