Sotto la nuova direzione di Mario Timbal, l’azienda RSI sta avviando un sensibile rinnovamento per accrescere l’interesse di tutta l’utenza, quindi anche di quella sezione del pubblico notoriamente più difficile da coinvolgere attraverso i media tradizionali: i giovani. Abbiamo intervistato Colin Porlezza, Professore presso la Facoltà di comunicazione, cultura e società dell’Università della Svizzera italiana (USI), per discutere delle maggiori sfide, ma anche delle principali opportunità, con le quali il servizio pubblico dei media è chiamato a confrontarsi se vuole interessare le nuove generazioni.
Professore Porlezza, attualmente i canali RSI raggiungono quasi ogni pubblico, con l’eccezione dei giovanissimi. È una questione antropologica?
La domanda che lei pone è spinosa e complessa. Non può essere spiegata semplicemente in chiave generazionale. Per capire, e quindi affrontare, l’allontanamento delle nuove generazioni dai tradizionali mezzi di informazione sono tante le variabili che devono essere tenute in conto. Tralasciando la questione – pur non secondaria – che riguarda la definizione stessa della categoria “giovane”, ogni tentativo e proposta mediatica volta a raggiugere, con successo, i giovani deve avere in chiaro il tipo di consumo mediatico di chi ha dieci, quindici o diciotto anni. Da un lato, come dimostrato ormai da numerose ricerche, il web e i social media sono i “luoghi” dove i ragazzi e le ragazze si informano. Dall’altro lato, sempre più studi rivelano aspetti interessanti dal punto di vista del tempo speso sulle piattaforme online. Anzitutto si rileva la tendenza a quello che in inglese si chiama multitasking e che si riferisce allo svolgimento di più attività allo stesso momento: si va online per cercare informazioni o notizie di gossip, per comunicare con gli amici o seguire influencer, per condividere foto e video. È evidente che le aziende mediatiche tradizionali non possono pensare di entrare nell’universo giovanile se non sono preparate ad accettare questa commistione tra attività diverse.
Non basta quindi che le aziende di servizio pubblico e la RSI, nello specifico, trasferiscano online parte delle proprie offerte?
Naturalmente, per raggiungere chi è nativo digitale, l’informazione deve essere facilmente accessibile online e raggiungibile dai vari dispositivi mobili. Tuttavia, questo non è di per sé sufficiente. E il motivo risiede nel fatto che, quando cercano notizie dal web o sui social media, i giovani si fermano a leggere e “consumano” quello che loro trovano interessante. Questo per loro è centrale. Per i quindicenni, i neomaggiorenni e chi ha poco più di vent’anni, le notizie sono informazioni utili, interessanti e anche di svago per loro. I giovani hanno quindi una concezione diversa, rispetto ai loro genitori e nonni, di quello che costituisce la “notizia” e i giornalisti che vogliono parlare ai ragazzi devono abbandonare l’idea che sia notiziabile ciò che si dovrebbe sapere (ad esempio, per essere cittadini responsabili o per venir informati su quanto accade nel mondo). Ovvio, si fa labile il confine tra intrattenimento e informazione perché quest’ultima è recepita quando si dà in forma individualistica.
Ma allora ai “nostri” giovani non interessa quello che sta accadendo a Kabul, in Afghanistan, in queste ore?
Non mi spingo a tanto. Certamente le vicende che investono il mondo possono risuonare nei giovani occidentali, ma meglio se si sottolinea un qualche legame tra quello che accade altrove e la quotidianità dei ragazzi ai quali ci si rivolge. Una recente ricerca condotta in Gran Bretagna mostra proprio che le nuove generazioni usano l’informazione come un modo per collegarsi al resto del mondo con cui condividono interessi, problematiche o paure (si pensi alle questioni “transnazionali” che riguardano gli stereotipi di genere, le diversità e le discriminazioni oppure l’ambiente). I giovani non cercano le informazioni ma vengono in contatto con loro. Per tanto i media devono trovare modi per interessarli a quanto riferiscono. Potremmo dire: è necessario riuscire a “raccontare storie” che si adattino alle aspettative dei giovani, ma senza escludere tematiche a priori. Niente di più sbagliato, ad esempio, che bandire la cultura partendo dal presupposto che interessi solo agli adulti. Si deve invece trovare la modalità giusta per incuriosire i giovani facendo produzioni e organizzando eventi culturali per loro e, anche, con loro.
A che punto è la RSI nella formulazione di proposte che prevedono la partecipazione e il coinvolgimento attivo dei giovani?
La Radiotelevisione della Svizzera italiana si situa, nel panorama internazionale, in buona luce. Ricordo due programmi che, a mio avviso, esemplificano molto bene l’impegno a presentare notizie con, su e insieme ai giovani. Il primo esempio riguarda Spam, che propone informazione, attualità e intrattenimento in un formato ibrido e ricorrendo al supporto di video, molto apprezzati dai giovani. Proposto dapprima su FB e inserito successivamente nel palinsesto più tradizionale, Spam porta con sé il valore aggiunto di andare là dove ci sono i ragazzi. Il secondo esempio che cito è quello di Wetube, uno spazio aperto della RSI che si basa sul principio della partecipazione: i giovani interessati a produzioni video possono utilizzare i luoghi e le risorse produttive messe a disposizione dall’azienda per realizzare i propri progetti video o podcast. Oltre a ciò, Wetube offre la possibilità di toccare “con mano” – potremmo dire – la RSI, che non è un’entità eterea e lontana.
Ci sono altri format che la RSI potrebbe proporre per raggiungere i giovani, magari riprendendo e adattando interessanti progetti esistenti a livello internazionale?
Un progetto nuovo per avvicinarsi all’audience, e quindi anche ai giovani, è quello delle redazioni “pop-up”, ovvero itineranti. È un’idea attuata dalla BBC ma che potrebbe essere ripresa anche qui da noi. Si tratta di trasferire, per una settimana o comunque un breve periodo, un’intera redazione in località che non sono i grandi centri: questo permette di ascoltare e coprire anche le notizie più locali. Nel caso svizzero, potrebbe essere interessante per la RSI pensare a una presenza regolare in cittadine oltre il Gottardo, dove c’è una forte presenza di italofoni.
Di Valeria Camia