Il Coronavirus ha messo in evidenza un’amara realtà: donne e uomini sono molto lontani dall’avere posizioni simili.
Basta dare un'occhiata a tv e giornali, per capire che i ruoli sono distribuiti in modo ineguale (non solo dopo lo scoppio della pandemia). In Germania, i volti della crisi sono quasi tutti maschili: da Jens Spahn a Christian Drosten, passando per Alexander Kekulé e Lothar Wieler. In Italia è praticamente la stessa cosa: da Roberto Speranza a Massimo Galli, passando per Silvio Brusaferro e Roberto Burioni. Una delle poche a fare eccezione ed essere ospite regolare di trasmissioni tv è la virologa Ilaria Capua.
Eppure sono soprattutto le donne a essere in prima linea nella pandemia.
Secondo l'Istituto tedesco per la ricerca economica, la percentuale di donne nelle professioni di importanza sistemica è di poco inferiore al 75%. Come infermiere, cassiere o educatrici, "mantengono i negozi aperti", per usare le parole della cancelliera tedesca Angela Merkel. Svolgono lavori indispensabili, ma sottopagati.
Cosa intende fare la RSI?
Il problema è stato sollevato anche in seno alla RSI. In particolare il Comitato del Consiglio regionale della CORSI (CCR), che durante questi ultimi due mesi si è riunito regolarmente in videoconferenza, ha incontrato il 6 maggio il Direttore generale SSR Gilles Marchand e il direttore regionale RSI Maurizio Canetta. Durante l’incontro si è discusso del necessario equilibrio fra donne e uomini nell’ambito dell’offerta dei programmi RSI. Un tema non nuovo, che da tempo la CORSI con i suoi organismi (Consiglio regionale e Consiglio del pubblico) ha posto al centro della sua attenzione e di quella della RSI.
“La questione – ha scritto il CCR in una nota - non concerne soltanto aspetti quantitativi, ossia il ridotto numero di collaboratrici rispetto a quello di colleghi chiamati a presentare trasmissioni e a moderare i dibattiti, bensì anche il coinvolgimento di esperte, di professioniste, in quegli stessi dibattiti. Non da ultimo è auspicabile che uomini e donne, nell’assolvere il proprio compito, siano chiamati ad una maggiore attenzione alla problematica di genere, anche nell’individuazione dei temi e alla corretta trattazione degli stessi”.
Anche l’Associazione ticinese dei giornalisti (ATG) ha messo l’accento sul ruolo delle donne. In particolare ha rilevato che “in queste ultime sette settimane tra i funzionari d’alto rango apparsi in prima fila nella gestione di questa emergenza abbiamo visto molto spesso solo degli uomini. E nemmeno il mondo dell’informazione spicca per un’equilibrata presenza tra uomini e donne. Nelle dirette televisive, i presentatori al fronte sono sempre e solo uomini, in particolare nelle numerose dirette della RSI. E questo vale anche per gli editoriali o i commenti pubblicati dai quotidiani ticinesi. ATG esorta le redazioni – ed è un compito più che mai urgente - a fare in modo che il giornalismo di qualità emerso in queste settimane possa accordare maggior spazio e visibilità anche alle colleghe giornaliste. Tutto questo ad un anno dallo sciopero nazionale delle donne, era il 14 giugno 2019. Quante belle parole allora….”
La petizione pubblica #ripartiredalledonne
Naturalmente, il problema è trasversale, tanto è vero che FAFTPlus (Federazione delle Associazioni Femminili Ticino), ha lanciato la petizione pubblica #ripartiredalledonne per chiedere una ripresa post emergenza sanitaria inclusiva, sostenibile ed efficace, con un tavolo dove sono integrati profili e competenze femminili, ma anche con provvedimenti di ricostruzione economica e sociale in prospettiva di genere.
Una petizione che ha riscosso un larghissimo successo, e a cui ha dato spazio la RSI con il programma “Millevoci” nella puntata del 4 maggio intitolata “Ripartire dalle donne: alla ricerca della sospirata parità di genere nel post pandemia”.
Anche perchè pensare una “nuova normalità” senza tematizzare il diverso impatto della pandemia su uomini e donne significherà rendere ancora più profonde le disparità esistenti.
L’appello è stato rivolto al Consiglio di Stato, perchè istituisca un tavolo ad hoc per la ricostruzione paritaria e che non esaurisca il compito semplicemente garantendo la presenza, quantitativa e rappresentativa delle donne ma ne faccia una questione di contenuti e modalità di lavoro.
È stato chiesto in particolare maggiore visibilità delle competenze femminili e del ruolo delle donne nella ricostruzione per promuovere la presenza femminile nei media e nello spazio pubblico e politico, in particolare delle esperte coinvolte nei gruppi di lavoro ai vari livelli, in modo da comunicare un nuovo concetto di leadership inclusiva, che ora può fare la differenza.
Un tema non nuovo
Come detto il tema della questione di genere nella RSI non è nuovo. Il Consiglio del pubblico aveva analizzato la situazione nel 2019. Nel suo rapporto finale scriveva: “Le donne sono maggiormente presenti in ruoli secondari, mentre agli uomini sono riservati in genere i ruoli più centrali e di maggior spessore. Questo sbilanciamento in favore di un maggiore protagonismo maschile riguarda la maggior parte delle emissioni e dei format, per cui è da considerarsi abbastanza trasversale, anche se questo aspetto è decisamente più marcato in ambito televisivo”. Nel 2018 era stato commissionato anche uno studio alla SUPSI sulla rappresentanza di genere nei programmi RSI, da cui era emerso che fra i conduttori le donne sono il 36.5%, mentre fra gli ospiti il 33.5%.
Paola Fuso
Un accordo che fa discutere
Oltre alla rappresentanza femminile, un altro tema che riguarda la RSI sta facendo molto discutere in tutta la Svizzera: la convenzione stipulata con il Consiglio di stato ticinese che prevede la messa a disposizione di giornalisti in caso di situazioni di emergenza. Concretamente, sette giornalisti dell’Attualità RSI stanno collaborando con lo Stato maggiore cantonale di condotta (SMCC) per la redazione e divulgazione di messaggi istituzionali - in qualità di militi della protezione civile - tornando poi a svolgere il loro ruolo di giornalisti nel restante tempo di lavoro. L’accordo, firmato dalle parti un anno fa in tempi “non sospetti”, ha suscitato le reazioni di parecchi media, dell’Associazione ticinese dei giornalisti e anche di parte del mondo politico (il PS ha inoltrato un’interrogazione al Consiglio di Stato). Anche il Comitato del consiglio regionale (CCR) della CORSI, nel comunicato del 6 maggio (vedi sopra) ha ribadito pubblicamente le proprie perplessità. “Pur prendendo atto – scrive il CCR – che secondo quanto comunicato dal direttore regionale Maurizio Canetta l’indipendenza editoriale e giornalistica della RSI non sarebbe stata limitata o condizionata dall’attuazione dell’accordo con il Cantone, il CCR reputa che la missione di servizio pubblico dell’azienda impone comunque una verifica sull’opportunità di rinunciare a una simile convenzione, dal momento che la sua esistenza – per altro non strettamente necessaria – può far sorgere interrogativi sull’effettiva autonomia informativa della RSI. Il CCR auspica pertanto che, nell’interesse del servizio pubblico radiotelevisivo, vi sia un rapido chiarimento che porti prioritariamente allo scioglimento dell’accordo”.
In un’intervista al quotidiano La Regione del 6 maggio, Canetta ha sottolineato che la convenzione “stabilisce chiaramente la separazione dei ruoli e dei compiti”. Inoltre, l’incarico dei giornalisti “non era quello di scegliere le informazioni da dare, ma quello di tradurre in audio, video e immagine i messaggi chiave”. All’osservazione che la RSI è l’unica emittente di servizio pubblico in Svizzera ad aver concluso questo accordo, Canetta replica che la RSI è l’unica a servire un solo cantone. Nella Svizzera tedesca o romanda l’accordo andrebbe concluso con più cantoni, uno scenario “impensabile”. Interpellata da Medienwoche, la direzione RSI ha affermato di non poter sciogliere la convenzione ma che potrà essere discusso un suo “miglioramento”. Un concetto ribadito anche dal consigliere di Stato Norman Gobbi, capo del Dipartimento istituzioni, che sempre su Medienwoche, ha bollato come “tardiva” la richiesta di scioglimento dell’accordo da parte della CORSI, affermando che non è basata sui fatti quanto piuttosto sul “mantra dell’indipendenza dei giornalisti”.
di Giorgia Reclari Giampà