Conferenze stampa delle autorità, bollettini medici, testimonianze vere o presunte, messaggi, raffiche di post sui social, smentite e cambi di rotta e fake news. Il mare delle informazioni durante la pandemia si è trasformato in una vera e propria tempesta che ci ha investiti e ha messo alla prova soprattutto il sistema mediatico. Nonostante le difficoltà, la copertura della pandemia di coronavirus da parte dei media svizzeri è stata in generale buona, anche se non sono mancate alcune criticità. È quanto emerso da uno studio dell'Istituto Fög (Forschungszentrum Öffentlichkeit und Gesellschaft) dell'Università di Zurigo pubblicato a fine luglio.
Uno tsunami di notizie
Un dato che colpisce riguarda la mole di notizie dedicate al tema covid-19: in alcuni giorni del primo semestre 2020 hanno raggiunto il 70% dell’insieme dei contenuti mediatici prodotti. Va sottolineato che lo studio ha preso in considerazione nel dettaglio solo i media della Svizzera tedesca e romanda. Per quanto riguarda i media italofoni e della Svizzera italiana, è stata fatta unicamente un’analisi quantitativa automatizzata su alcune testate online (rsi.ch, tio.ch e cdt.ch), da cui emerge che i media italofoni sono stati quelli che hanno dedicato il maggior numero di notizie all'argomento: il picco è stato raggiunto il 21 aprile, quando il 75% di tutti i contributi facevano riferimento al Covid-19. Se il dato non sorprende, considerato che la Svizzera italiana è stata fra le regioni più colpite ed è stata toccata per prima dall’emergenza, colpisce però – per gli stessi motivi – che sia stata esclusa dallo studio approfondito del Fög.
Poca distanza critica dalle autorità e l’anomalia ticinese
«Nell’insieme, dallo studio emerge che i contenuti sono stati affrontati in modo oggettivo dai media” ha affermato Mark Eisenegger, ricercatore in comunicazione e direttore del Fög. Ma – aggiunge - non mancano gli aspetti critici, per esempio una certa mancanza di contestualizzazione delle cifre e delle statistiche, come pure una distanza critica insufficiente dalle autorità, soprattutto nel periodo che ha preceduto il lockdown. La CORSI ha commentato i risultati dello studio con alcuni esperti di giornalismo della Svizzera italiana. Secondo Enrico Morresi, ex giornalista e attento osservatore della realtà dei media svizzeri, “per sostenere un atteggiamento critico occorre molta competenza e le cure di risparmio cui sono stati sottoposti molti media negli ultimi anni hanno allontanato dalle redazioni giornalisti con competenze specifiche”. Gabriele Balbi, professore di Media Studies all’USI di Lugano sostiene che “si è scelto di sospendere il classico diritto-dovere di critica, in favore di un atteggiamento più filo-governativo in un momento così delicato per i cittadini”.
“Per quanto riguarda la Svizzera italiana – gli fa eco Natascha Fioretti, giornalista freelance e membro di comitato dell’Associazione ticinese dei giornalisti – confermo che la voce critica è stata quella dei settimanali e in particolare del domenicale il Caffè, che è stato il primo a sollevare la questione dell’accordo siglato tra la RSI e il Cantone e il primo ad attirare l’attenzione sull’anomalia delle conferenze stampa delle autorità ticinesi svolte a porte chiuse”. Come si ricorderà, l’accordo tra RSI e Cantone, che prevede la messa a disposizione di giornalisti allo Stato maggiore di condotta in caso di crisi e attuato durante l’emergenza coronavirus, ha suscitato parecchie polemiche. Anche la CORSI ha chiesto formalmente che venga sciolto perché potrebbe mettere a rischio l’immagine di un servizio pubblico indipendente.
Mancanza di diversità fra gli esperti e donne assenti
Un’altra lacuna evidenziata riguarda gli esperti interpellati: la maggioranza erano virologi, epidemiologi e immunologi. “anche se la pandemia ha toccato tutti gli ambiti della società, settori come la sociologia, la psicologia o la politologia sono sottorappresentati” afferma Mark Eisenegger. Una sorte toccata anche alle donne: dei 30 esperti interpellati più frequentemente solo due erano donne. Lo studio prende in considerazione solo la Svizzera tedesca e romanda, ma la Svizzera italiana non si è distinta, come rileva Natascha Fioretti: “Le prime pagine dei nostri quotidiani erano quasi esclusivo appannaggio di firme ed editoriali maschili e così anche gli interlocutori e gli esperti scelti per raccontarci cosa stava accadendo e prospettarci scenari futuri, quasi sempre uomini”. Oltre a ciò, aggiunge Fioretti, “C’è stata anche una mancanza di attenzione da parte dei media nei riguardi delle voci femminili della società civile che in quel periodo si sono levate per porre l’accento sulla problematica, come l’Iniziativa lanciata da FAFTPlus “Ripartire dalle donne” che avrebbe meritato maggiore visibilità e la lettera aperta inviata in aprile dal gruppo Gender_Covid 19 firmata da molte donne e uomini della società civile”.
Servizio pubblico rafforzato
Lo studio loda per contro il fatto che quasi nessun media ha ceduto alle sirene dell’allarmismo, ma ci sono comunque delle differenze nella qualità dell’informazione fornita. Servizio pubblico e media in abbonamento si sono distinti per una maggiore varietà di temi affrontati ed esperti interpellati, oltre che più contestualizzazione e sguardo critico nei confronti delle autorità e del governo. “Senza dubbio, i servizi pubblici radiotelevisivi sono usciti rafforzati dalla pandemia. Non solo perché, in momenti di crisi e di lockdown, in molti paesi del mondo le persone sono tornate ad accendere i televisori, ma anche e soprattutto perché i servizi pubblici si sono dimostrati più credibili di altri canali” conferma Balbi. Anche il collega Colin Porlezza, professore di giornalismo alla City University of London e Visiting Professor all’USI conferma la tendenza: “Secondo uno studio dell’European Broadcasting Union, le radiotelevisioni pubbliche europee hanno registrato in media un aumento del 20% dell’audience del telegiornale quotidiano principale. Rispetto agli spettatori più giovani, tra i 14 e i 25 anni, questo trend è ancora più evidente: in media, il numero di ragazzi che si sono sintonizzati sul TG principale è aumentato addirittura del 44%. Questo ci dimostra due cose: prima di tutto che in tempi di crisi c’è una grande richiesta di informazioni e, secondariamente, che nel sistema dei media il servizio pubblico gioca ancora un ruolo fondamentale quando si tratta di offrire informazioni credibili che garantiscano diversità”.
Secondo Porlezza gli ultimi mesi hanno dimostrato che il giornalismo è fondamentale in tempi di crisi e se svolto in maniera critica, trasparente e attendibile, può riguadagnare fiducia tra i cittadini. Occorre però vigilare e contrastare la diffusione sempre più rapida di disinformazione che alimenta le incertezze intorno alla pandemia. “Questo fatto, abbinato al peggioramento delle condizioni di lavoro dei giornalisti a causa delle restrizioni economiche e le sempre più frequenti pressioni riguardo alla libertà di stampa, fa sì che la condizione attuale di molti giornalisti sia tutt’altro che rosea”.
Di Giorgia Reclari Giampà, Segretariato CORSI
Fonte: Corriere degli italiani, 26 agosto 2020