I rapporti (talvolta controversi) con le autorità, la predominanza degli esperti uomini, la crisi della carta stampata, ma anche la qualità dell’offerta di servizio pubblico, l’impegno ad evitare allarmismi e le inchieste che hanno svelato criticità. Dopo la pubblicazione dello studio dell'Istituto Fög dell'Università di Zurigo, che ha analizzato la copertura mediatica della pandemia di coronavirus in Svizzera, abbiamo interpellato Natascha Fioretti, giornalista freelance, segretaria operativa dell’Associazione ticinese dei giornalisti, nonché conoscitrice del panorama mediatico elvetico e internazionale, sulla situazione nella Svizzera italiana.
(Sullo stesso tema abbiamo intervistato anche Enrico Morresi, esperto di giornalismo, qui le sue risposte)
Dallo studio emerge che la copertura mediatica dell’emergenza coronavirus è stata tendenzialmente positiva in Svizzera, anche se diversi media non sarebbero stati sufficientemente critici nella fase che ha preceduto il confinamento. Concorda con questa affermazione?
«Sì, nella fase iniziale i media sono stati presi alla sprovvista, non era facile inquadrare la natura e la portata di quanto stava accadendo. A causa dei tanti tagli che hanno colpito le redazioni negli ultimi anni mancavano ad esempio giornalisti scientifici con le competenze adeguate per poter analizzare la situazione. In un primo momento i media sono stati sopraffatti dalla portata del tema limitandosi a diffondere e sostenere le comunicazioni dell’Ufficio federale della sanità pubblica e del Consiglio federale. Bisogna però anche dire che grazie ad un’etica giornalistica responsabile che ha tenuto conto degli effetti delle notizie, hanno contribuito a non diffondere il panico e a mantenere la stabilità nel Paese. Un giornalismo più critico lo abbiamo visto a partire dalla fine del lockdown in particolare sulla stampa della Svizzera tedesca. C’è stato un risveglio dell’animo investigativo dei media per cui finalmente si sono fatte anche domande scomode per capire se quanto è stato fatto, nei modi e nei tempi, si poteva fare meglio o diversamente. Ne è un esempio l’articolo della NZZ am Sonntag di qualche settimana fa secondo cui si spiega che Daniel Koch avrebbe ignorato i segnali d’allarme a inizio pandemia, obbligando a misure restrittive più severe in seguito. Segnali evidenziati in una lettera inviata da quattro epidemiologi dell’Università di Berna in data 25 febbraio a Daniel Koch, al Consigliere federale Alain Berset e a Pascal Strupler, direttore dell’Ufficio federale della sanità pubblica. Il Consiglio federale ha ascoltato gli esperti giusti? Si chiedeva nell’articolo la NZZ am Sonntag ».
Lo studio sottolinea che la radiotelevisione pubblica e i media in abbonamento si sono distinti per la maggiore varietà dei temi affrontati, migliore pertinenza e più contestualizzazione. Nella svizzera tedesca e romanda il servizio pubblico, i domenicali e i settimanali sono risultati più critici nei confronti dell’autorità e del governo. Nella Svizzera italiana ha fatto molto discutere l’accordo siglato tra la RSI e il Cantone per la messa a disposizione dello Stato maggiore cantonale di condotta di giornalisti per la comunicazione istituzionale in situazioni di emergenza. Un accordo che alcuni rappresentanti politici e anche la CORSI hanno chiesto pubblicamente di sciogliere, perché rappresenta potenzialmente un limite all’indipendenza giornalistica. Pensa che questo aspetto abbia influito sulla tipologia di informazione fornita nella Svizzera italiana, rendendola diversa da quella d’oltre San Gottardo?
«Peccato che nella fotografia che l’Università di Zurigo ha voluto scattare della copertura mediatica svizzera durante la pandemia non sia stata inclusa la Svizzera italiana. Per quanto ci riguarda confermo che la voce critica è stata quella dei settimanali e in particolare del domenicale il Caffè, che è stato il primo a sollevare la questione dell’accordo siglato tra la RSI e il Cantone e il primo ad attirare l’attenzione sull’anomalia delle conferenze stampa a porte chiuse. Parlandone con alcuni professori ed esperti di giornalismo d’oltre Gottardo mi sono spesso sentita dire “Non è possibile, da noi una situazione simile sarebbe intollerabile”. Proprio per questo l’Associazione ticinese dei giornalisti a suo tempo si è impegnata e con successo per riaprire le conferenze stampa ai giornalisti.
Sull’accordo tra RSI e lo Stato maggiore cantonale di condotta è stato detto tanto e la RSI ha spiegato le sue motivazioni facendo presente che fino al 2028 l’accordo non si potrà sciogliere. Al di là delle buone intenzioni è evidente per chi fa questo mestiere che il difetto sta nel manico perché se i giornalisti e le autorità che sono chiamati a vigilare diventano una cosa sola, questo pone un problema e di non poco conto. “Libertà di stampa maltrattata”, titolava a riguardo il quotidiano romando La Liberté. Tornando alla domanda, per poter valutare con accuratezza se e in che misura questo aspetto abbia influito, sarebbe stato provvidenziale lo studio. Sicuramente una maggiore distanza e indipendenza avrebbe portato ad un giornalismo più critico e meno allineato alle comunicazioni istituzionali».
Lo studio evidenzia inoltre alcune carenze che riguardano tutti i media analizzati: una certa mancanza di varietà fra gli esperti intervistati, che ha visto prevalere il settore sanitario/scientifico a scapito di altri comunque toccati dalla pandemia, (come l’economia), oltre a una netta predominanza di interlocutori uomini. Inoltre, è stata rilevata una certa mancanza di contestualizzazione delle cifre e delle statistiche. Concorda con questa analisi? Ci sono altre lacune che riguardano la Svizzera italiana?
«Come non essere d’accordo. In particolare sulla questione, ancora una volta, della sottorappresentazione femminile nei media. Le prime pagine dei nostri quotidiani erano quasi esclusivo appannaggio di firme maschili e editoriali maschili e così anche gli interlocutori e gli esperti scelti per raccontarci cosa stava accadendo e prospettarci scenari futuri, quasi sempre uomini. Non è stato un problema soltanto svizzero o ticinese, lo stesso difetto durante l’emergenza è stato rilevato anche alla BBC o sulla stampa italiana ma questo non deve assolutamente consolarci.
C’è stata anche una mancanza di attenzione da parte dei media nei riguardi delle voci femminili della società civile che in quel periodo si sono levate per porre l’accento sulla problematica. Mi riferisco all’Iniziativa lanciata da FAFTPlus “Ripartire dalle donne” che avrebbe meritato maggiore visibilità e alla lettera aperta inviata in aprile dal gruppo Gender_Covid 19 firmata da molte donne e uomini della società civile. Proprio in questa lettera si faceva presente come le donne fossero sparite dagli schermi del servizio pubblico, tutt’a un tratto sembrava non esistessero più le donne nel giornalismo, nella scienza, nell’economia, nella medicina e in altri campi, restituendo un quadro pericolosamente parziale e inesatto della società e della situazione in quel momento. Lo dico ormai da anni, chi non è in grado di dare voce alla società tutta, di rappresentarla nella sua interezza, diversità e complessità, chi non è in grado di capire che le competenze delle donne sono indispensabili in qualsiasi ambito e in qualsiasi momento, non deve stupirsi se perde lettori (spettatori, ascoltatori) o non conquista l’attenzione di nuove lettrici e dei più giovani».
( ndr. Su questo tema leggi anche l’intervista a Federica Guerra, co-presidente del Business and Professional Women Club Ticino )
In generale secondo lei i media di servizio pubblico nella Svizzera italiana si sono distinti dai privati (in positivo o in negativo) durante gli ultimi mesi?
«La problematica più evidente che si è venuta a creare durante la pandemia è la grave crisi economica che ha colpito i media già duramente provati dal calo pubblicitario degli ultimi anni. A soffrirne è stata in particolare la carta stampata e lo abbiamo potuto constatare sfogliando ogni giorno giornali ridotti all’osso per numero di pagine e spesso monotematici anche perché le persone, i lettori spaventati dalla portata della pandemia avevano sete di informazione e chiedevano notizie, aggiornamenti e approfondimenti sul virus e i suoi effetti. Quindi un po' per scelta un po' per necessità, un po' anche perché tutti gli eventi culturali e sportivi sono stati annullati è venuta meno la varietà dei temi proposti. E, vorrei dire, anche la varietà delle firme perché i giornali hanno fatto meno affidamento sui contributi dei giornalisti freelance che in questi mesi si sono trovati in grave difficoltà finanziaria vedendo scomparire da un momento all’altro i mandati di settimane di lavoro. È chiaro che in questo contesto il servizio pubblico, che può contare su maggori risorse, ha avuto la possibilità di offrire una programmazione più varia e più ricca e non necessariamente monotematica. Credo che un ottimo lavoro sia stato fatto in particolare dalle radio che per vocazione e perché lavorano con processi più snelli hanno potuto adattarsi e cambiare i palinsesti con maggiore velocità offrendo non solo un’informazione attuale puntuale ma anche approfondimenti di qualità e uno sguardo non soltanto ticinese o svizzero».
di Giorgia Reclari Giampà, Segretariato CORSI