Come si sono comportati i media durante l’emergenza coronavirus? Ora che la fase (si spera) più critica della crisi è stata superata inizia il tempo dei bilanci. Una prima analisi l’ha compiuta l’Istituto Fög dell'Università di Zurigo, che nel suo studio reso noto a inizio luglio ha però preso in considerazione solo quanto pubblicato nella Svizzera tedesca e romanda. E i giornali, i siti, le radio, le tv e soprattutto il servizio pubblico nella Svizzera italiana come si sono mossi? Sul tema abbiamo già intervistato sue esperti provenienti dal mondo del giornalismo, Natascha Fioretti e Enrico Morresi. Ora abbiamo il piacere di ospitare le considerazioni di due professori universitari: Gabriele Balbi (sulla destra), professore di media studies all’Università della Svizzera italiana (USI) e Colin Porlezza (sulla sinistra), professore di giornalismo alla City University of London e Visiting Professor all’USI.
Dallo studio emerge che la copertura mediatica dell'emergenza coronavirus è stata «tendenzialmente positiva» in Svizzera, anche se diversi media non sono stati «sufficientemente critici» nella fase che ha preceduto il confinamento. Concordate con questa affermazione?
CP: Sì, concordo con l’affermazione dei colleghi zurighesi. Nel complesso, la copertura giornalistica della pandemia in Svizzera è stata caratterizzata da una distanza critica dal governo e da una buona contestualizzazione degli eventi. Tuttavia, nelle settimane che hanno preceduto il confinamento e l’introduzione di misure più rigide, i media sono stati meno critici verso le decisioni prese dalle autorità. Hanno trasmesso le istruzioni e le analisi del governo e di alcuni virologhi senza metterle in discussione. Da una parte, questo può contribuire a rinforzare la fiducia dei cittadini nelle misure governative, dato che le critiche potrebbero causare maggiore incertezza. Dall’altra, però, c’è il rischio che i media diventino casse di risonanza del governo. In tempo di crisi i media hanno anche accettato alcune misure logistiche che ne hanno limitato il ruolo e l’operato. Si pensi alle conferenze stampa tenute dal governo nell’ambito delle quali i giornalisti erano costretti a inoltrare le domande in anticipo, riducendo così la possibilità di dibattere o chiedere chiarimenti.
GB: Aggiungerei solo un paio di riflessioni. La prima è che, a livello globale, pochi servizi pubblici radiotelevisivi erano pronti ad affrontare una pandemia di questo tipo. Si sono trovati in una situazione mai sperimentata in precedenza, che ha messo a dura prova gli apparati produttivi e le pratiche giornalistiche. Ad esempio, come già diceva il collega, si è scelto di sospendere il classico diritto-dovere di critica, in favore di un atteggiamento più filo-governativo in un momento così delicato per i cittadini. A questo si collega una polemica tutta Svizzera, e nello specifico della Svizzera italiana. Prima dello scoppio della pandemia, la RSI ha firmato con le autorità di cantonali un accordo mettendo a disposizione dello Stato maggiore personale specializzato in caso di crisi. La cosa si è puntualmente verificata e alcuni giornalisti RSI hanno aiutato le autorità a confezionare messaggi per la popolazione. La cosa ha suscitato varie polemiche, nonostante il fatto che l’accordo fosse pubblico, ed ha fatto gridare allo scandalo e alla presenza di giornalisti “embedded”, nonché alla sospensione della libertà di stampa (e di critica).
Lo studio sottolinea che la radiotelevisione pubblica e i media in abbonamento si sono distinti per la maggiore varietà dei temi affrontati, migliore pertinenza e più contestualizzazione. Che cosa ne pensate, anche in riferimento al servizio pubblico dei media in altri paesi?
GB: Senza dubbio, i servizi pubblici radiotelevisivi sono usciti rafforzati dalla pandemia. Non solo perché, in momenti di crisi e di lock down, in molti paesi del mondo le persone sono tornate ad accendere i televisori, ma anche e soprattutto perché i servizi pubblici si sono dimostrati più credibili di altri canali. Varietà, pertinenza e contestualizzazione sono elementi determinanti per informare il pubblico, ma direi che al primo posto vada messa la credibilità, specie in tempi di proliferazione di notizie false.
CP: Sono d’accordo col collega. Prima di tutto, la pandemia ha dimostrato che il giornalismo è essenziale in tempi di crisi. Inoltre, si è rilevato che in questi momenti il pubblico si affida maggiormente a fonti credibili come la radiotelevisione pubblica o i media in abbonamento. I dati di un recente studio https://www.ebu.ch/news/2020/03/public-service-media-are-trusted-source-of-information-on-covid-19-crisis-1della European Broadcasting Union hanno comprovato questo trend: le radiotelevisioni pubbliche europee hanno registrato in media un aumento del 20% dell’audience del telegiornale quotidiano principale. Rispetto agli spettatori più giovani, tra i 14 e i 25 anni, questo trend è ancora più evidente: in media, il numero di ragazzi che si sono sintonizzati sul TG principale è aumentato addirittura del 44%. Questo ci dimostra due cose: prima di tutto che in tempi di crisi c’è una grande richiesta di informazioni e, secondariamente, che nel sistema dei media il servizio pubblico gioca ancora un ruolo fondamentale quando si tratta di offrire informazioni credibili che garantiscano diversità.
L'analisi evidenzia inoltre alcune carenze che riguardano tutti i media presi in considerazione: una certa mancanza di varietà fra gli esperti intervistati, che ha visto prevalere il settore sanitario/scientifico a scapito di altri comunque toccati dalla pandemia, (come l'economia), oltre a una netta predominanza di interlocutori uomini. Inoltre, è stata rilevata una certa mancanza di contestualizzazione delle cifre e delle statistiche. Concordate con questa analisi? Ci sono altre lacune secondo voi? La situazione disegnata può essere paragonabile con quella dei paesi limitrofi?
GB: La scelta degli esperti da consultare comporta spesso delle problematiche per i media. I dati evidenziati dai colleghi zurighesi sono in linea con i risultati di ricerche precedenti nel campo giornalistico che dimostrano come gli “esperti” intervistati, in molti casi più volte, tendono a essere uomini. Oltre a ciò, la dominanza del settore epidemiologico è comprensibile dato che la pandemia è principalmente una crisi sanitaria e umanitaria. Tuttavia, sarebbe auspicabile una maggior diversità degli intervistati: la pandemia è un evento talmente pervasivo che tocca tantissimi aspetti della società e, nel caso specifico, della nostra vita quotidiana. Quindi anche discipline come la psicologia, la sociologia, l’economia, la matematica, ma anche e soprattutto la comunicazione - vista l’importanza dell’informazione in tempi di crisi - sono materie che possono aiutarci a comprendere meglio cosa sta succedendo. E in questo, come ha dimostrato la crisi, i media hanno ancora margine di miglioramento.
CP: L’uso sfrenato di numeri e di statistiche costituisce uno dei problemi più seri della copertura giornalistica legata al COVID-19. Da una parte, la pandemia rappresenta una grandissima opportunità per il giornalismo dei dati (il cosiddetto data journalism) perché mette in luce come questo possa spiegare situazioni complesse attraverso la raccolta, l’analisi e la visualizzazione spesso anche interattiva di dati. Dall’altra, però, comporta il rischio di cadere in un feticismo numerico. I dati non parlano da soli, devono essere interpretati da chi è in grado di farlo e le variabili che generano quei dati sono molteplici. Inoltre spesso i numeri usati sono approssimazioni, oppure si paragonano dati che vengono raccolti in modo diverso da paese a paese (si pensi al numero dei deceduti), o ancora si fanno comparazioni tra paesi o regioni che si trovano in momenti diversi della pandemia. Tutti questi aspetti riducono la validità dei dati usati e richiedono degli approfondimenti, altrimenti, come ha evidenziato uno studio del Reuters Institute for the Study of Journalism, si rischia di perdere il pubblico che si stanca di sentire una serie di dati drammatici. È compito dei giornalisti evidenziare il contesto e i limiti dei dati usati nelle analisi per rendere più trasparente la cronaca, ma naturalmente ciò impone una capacità di lettura e critica del dato. Questa difficoltà si è vista in Svizzera come altrove.
Siete entrambi docenti di media e giornalismo all’USI. Quali stimoli e spunti di riflessione sul mondo dei media avete ricevuto in questi mesi?
GB: Gli spunti di riflessione sono molteplici, secondo alcuni il mondo dei media uscirà dall’esperienza Covid 19 completamente rivoluzionato. Innanzitutto, va ricordato il fatto che alla pandemia ha corrisposto una infodemia, cioè una circolazione incontrollata di notizie sul Coronavirus, spesso in contrasto tra loro. Questo è un meccanismo tipico del mondo dei media, in cui il pubblico desidera consumare grandi quantità di informazione in momenti di incertezza e vero e proprio panico morale. In secondo luogo, si è assistito anche stilisticamente a un cambiamento nelle modalità di produzione dei programmi, con ospiti collegati da casa attraverso Skype, Zoom o altre piattaforme che abbiamo imparato a conoscere. Sembrano quindi gli albori di una televisione più “sporca”, audiovisivamente di qualità inferiore ma più autentica (cosa c’è di più autentico di casa propria?). Anche in questo caso, però, a me pare una tendenza nata prima ad esempio con l’ibridazione tra TV e Web. Su come il giornalismo potrà cambiare, lascio la parola al mio collega che insegna proprio questa materia.
CP: Gli ultimi mesi hanno dimostrato che il giornalismo è fondamentale in tempi di crisi. Un aspetto positivo di questa pandemia potrebbe dunque essere che il giornalismo, se svolto in maniera critica, trasparente e attendibile, possa (ri-)guadagnare fiducia tra i cittadini. Allo stesso tempo, però, possiamo osservare la diffusione sempre più rapida di disinformazione che alimenta le incertezze intorno alla pandemia. Questo fatto, abbinato al peggioramento delle condizioni di lavoro dei giornalisti a causa delle restrizioni economiche, e le sempre più frequenti pressioni riguardo alla libertà di stampa, fa sì che la condizione attuale di molti giornalisti sia tutt’altro che rosea.
di Giorgia Reclari Giampà, Segretariato CORSI