Cosa pensa il giornalista Michele Fazioli -una vita trascorsa alla Radiotelevisione svizzera- dei tempi burrascosi affrontati dalla RSI a inizio anno? Ecco la sua opinione.
Intervista a cura di Chiara Sulmoni, redattrice del periodico per.corsi.
Michele Fazioli, lei ha trascorso tanti anni alla RSI. Come sta vivendo, dall’esterno, questo momento particolarmente difficile per l’azienda e per i suoi collaboratori?
La RSI è stata la mia casa professionale per 45 anni. E dunque ho vissuto con preoccupazione le note vicende legate ai licenziamenti. A fare rumore è stato il modo (riconosciuto come un errore). Ma il fatto stesso di dover licenziare dei collaboratori, annunciato già mesi fa dalla SSR, per ragioni finanziarie e di politica aziendale in generale, è di per sé stesso un elemento che non può che turbare. L’azienda ha mostrato di aver recepito l’inadeguatezza sociale e psicologica della prassi attuata. E devo dire che il direttore ha avuto coraggio e senso di responsabilità nell’ammettere, dopo le prime ore concitate, l’errore, giocandosi in prima persona senza cercare appigli.
Ma la vera preoccupazione, che perdura, sta nel futuro prossimo. A quanto è dato di capire (l’ha ricordato il direttore generale de Weck) avverranno probabilmente in futuro altri licenziamenti. Le modalità saranno naturalmente diverse ma la sostanza non cambierà. La “cura” dolorosa dovrà andare avanti, è stato detto. D’altra parte le riduzioni di posti di lavoro per ragioni finanziarie ma anche per inevitabili ristrutturazioni dettate da molti fattori nuovi, hanno toccato negli scorsi anni e oggi ancora altri settori del servizio pubblico (penso a Swisscom, alle FFS, alla Posta, ad altre aree) per non parlare del privato. Certi passaggi, certe mutazioni strutturali (nel merito delle quali non voglio qui entrare) fanno male al cuore ma poi spesso sono necessari.. Mi sono comunque informato bene per capire meglio i recenti eventi tanto discussi. Errori maldestri a parte, onestà impone di dire che mesi fa la RSI aveva annunciato la soppressione, decisa e di fatto imposta da Berna, di 49 posti di lavoro. Ci fu preoccupazione nel Paese ma non sopra le righe. Si era capito che stavano giungendo tempi difficili e decisioni anche dolorose. Sotto sotto c’era persino chi diceva: e vabbè, stavolta tocca anche agli intoccabili della RSI… Con tutta una serie di misure (pre-pensionamenti, posti non sostituiti, riduzioni di tempo di lavoro, rinuncia a posti vacanti) si è riusciti a licenziare soltanto (si fa per dire) 18 persone. Il contributo finanziario di cessazione dell’attività per loro è stato giudicato molto positivo, anche se nessun piano sociale e finanziario può togliere il dolore e spesso l’umiliazione – immeritati – di un licenziamento senza colpa. A me pare che oggi, archiviata con buona memoria la vicenda del modo (certi errori servono almeno ad essere sicuri che non saranno più commessi) sarebbe ora di rendere più serena la giusta attenzione critica e di sospendere l’ossessivo tiro al bersaglio contro la nostra radiotelevisione, i suoi dirigenti e i suoi collaboratori. La RSI è un ramo importante su cui la Svizzera italiana sta seduta: possiamo rafforzarlo, discuterne, criticare. Ma segare quel ramo sarebbe un suicidio culturale e sociale.
Dalle colonne della Regione il vicedirettore Aldo Bertagni ha ricordato come disagi e malumori sul lavoro fossero noti e documentati da tempo, e alcune prese di posizione particolarmente dure da parte di collaboratori e giornalisti nei confronti della direzione confermano un clima difficile nei corridoi di Besso e di Comano. Perché secondo lei siamo arrivati a questo punto?
Bertagni, che è un giornalista serio, deve aver percepito un certo disagio che forse viene da più lontano nel tempo. Però devo dire che ho lavorato 45 anni alla RSI e stagioni di malumori, palesi o striscianti, ne ho vissute parecchie. Ogni riforma profonda di azienda ha causato momenti di inquietudine (comprensibili) fra i collaboratori. Una dialettica anche vivace fra direzione e sindacati non è una novità, alla RSI. Ci sono stati periodi sereni ed altri un po’ più agitati. Ma tutti questi confronti, anche utili, avvenivano dentro la certezza di una struttura forte e della garanzia di posti di lavoro sicuri. Adesso invece, per la prima volta nella storia della RSI, questa certezza diventa friabile. Allora ogni novità strutturale, ogni confronto di pareri opposti assumono tratti di nervosismo e anche di paura. Non è una bella cosa. Ma la RSI, come tanti altri settori del servizio pubblico, deve fare i conti con una evoluzione aziendale e anche tecnologica e di mercato, che porta per forza fluidità e flessibilità nuove e ottimizzazioni. Il mondo delle aziende pubbliche blindate e della filosofia del “posto fisso” assoluto sta svaporando a fronte di scenari nuovi, alcuni appassionanti, altri un po’ inquietanti.
Sono comunque certo che questa realtà nuova sarà affrontata e capita dai collaboratori. I quali già sanno benissimo che radio e tv sono cambiate moltissimo in pochi anni, la fruizione è volubile, multimediale, frammentata, spalmata su mille piste diverse e con tecnologie in continua, vistosa mutazione. La concorrenza è totale, il monopolio è morto da un pezzo e i tempi finanziari sono duri. Io sono fiducioso, nondimeno. La RSI ha sempre trovato nelle proprie risorse di creatività gli strumenti per rinnovarsi e affrontare le sfide nuove: Mi viene da dire: forza, RSI!
Nelle notizie diffuse da giornali, testate online e soprattutto social media, la RSI viene dipinta come una nave allo sbando nel mezzo di una “bufera”. Per restare in metafora marinara: si sta veramente perdendo la rotta?
Da quel che sento e vedo, la RSI produce cose di qualità, spesso con freschezza anche generazionale, idee nuove, sperimentazioni e anche forza di approfondimenti accanto agli intrattenimenti. Dal risultato, non mi pare che la RSI possa essere considerata nella bufera, o allo sbando. Se tutte le bufere producessero frutti simili, viva le bufere. Nella giungla incontrollabile dei social media tutti possono soffiare sul fuoco. Conosco bene il direttore, la responsabile dei palinsesti e i capi delle aree di programma: sono persone che sanno tenere il timone, e lo dico per esperienza diretta. Le indagini e i sondaggi dicono che, al di là delle libere critiche (ne avrei qualcuna anch’io) il pubblico della Svizzera italiana apprezza l’offerta di programmi dei nostri canali radiotelevisivi. Alla fine lo stato di salute di una radio e di una televisione non si misura analizzando strutture, rapporti di potere, procedure e gestioni. Lo si misura dalla qualità dei programmi. E allora io dico che il paziente RSI sta bene. Prende qualche raffreddore ogni tanto, ma sta bene. E fin che c’è la salute…
In questa vicenda, molte critiche si sono abbattute anche sulla CORSI. Si sarebbe aspettato una reazione più incisiva, o comunque diversa, da parte del Comitato?
La CORSI per statuto non può interferire direttamente nella politica dei programmi e nemmeno in quella aziendale. Ha un suo ruolo preciso, importante ma mirato. A me pare che il presidente Luigi Pedrazzini in alcuni interventi abbia dimostrato di capire le reazioni per ciò che era accaduto, di farsene carico a livello istituzionale e di voler ripartire con determinazione, in modo solidale con la direzione, per correggere gli errori e costruire in positivo.
La CORSI viene considerata da molti un organismo un po’ “paludato”. Cosa ne pensa?
La CORSI è una società regionale e rappresenta il pubblico italofono della SSR, deve mantenere un ruolo istituzionale a fronte dell’organizzazione professionale dell’azienda RSI. Per questo appare un po’ più defilata rispetto alla trincea di chi conduce l’azienda e i programmi. In questo senso può apparire un po’ “paludata” ma invece svolge un suo ruolo prezioso, fra l’altro di cerniera vitale fra la RSI e il paese politico, sociale, culturale. La CORSI ha una sua forza istituzionale e morale e la può usare in senso positivo, influendo sulla politica dei programmi. In altri Paesi questo ruolo di rappresentanza del pubblico non c’è. Mi pare che negli ultimi anni la CORSI, fedele al proprio mandato, stia accendendo nel Paese incontri ed eventi per ascoltare, far dialogare, informare. E’ una buona cosa.
In una recente intervista Giacomo Garzoli, nuovo membro del Comitato CORSI sostiene che “bisogna riscoprire la missione di servizio pubblico della radiotelevisione”. La RSI - e per esteso la SRG SSR - avrebbero perso di vista il proprio ruolo e il proprio mandato?
Bisognerebbe prima definire, e se occorre in termini innovativi, cosa sia davvero il “servizio pubblico”. Servizio pubblico è un termine complesso e persino incerto. La SSR (e la RSI) fanno servizio pubblico, non si discute. Ma anche le emittenti private riconosciute e finanziate da una percentuale del canone hanno una funzione, magari solo parziale, di servizio pubblico. A questo proposito dico che io da sempre sostengo che l’esistenza di radio e tv private accanto alla SSR crea una complementarità utile al pubblico e anche una concorrenza positiva e stimolante, e assicura un pluralismo diversificato oltre a quello garantito dalla SSR. Forse che poi i giornali stessi non assicurano una parte originale di servizio pubblico? Su questi temi il dibattito approfondito e nazionale si aprirà presto.
Il fatto che buona parte dei membri CORSI, soprattutto nel Comitato abbiano un profilo e una storia politica alle spalle, può essere una zavorra?
In CORSI ci sono sempre stati solo dei politici, diretti o indiretti. La politica ha una sua delega ricevuta dal popolo e garantisce una ripartizione equilibrata di aree di pensiero e culturali nei consigli d’amministrazione di enti pubblici. Altrimenti con che criteri si sceglierebbero i membri della CORSI? Per emotività, gruppi di pressione, lobbismo? Poi non sono un ingenuo, so bene che c’è anche il potere puro, quello delle influenze politiche e delle poltrone. Ma la dialettica fra RSI e CORSI è sempre stata in generale chiara e leale. Vedrei in CORSI anche, accanto ai politici in senso stretto, qualche persona di competenza diversa (giornalistica, intellettuale, socioeconomica), comunque di area culturale dichiarata, per assicurare l’equilibrio di cui dicevo. Ma senza fare la retorica della società civile contrapposta alla politica: non ci credo. I politici li sceglie la società civile, no?
Nel territorio limitato della Svizzera italiana dove la politica è sempre dietro l’angolo, il giornalismo riesce ad assolvere al suo ruolo ideale e forse idealizzato di “cane da guardia” del potere?
Stando a certe rimostranze (quelle sbagliate, non quelle giuste) nei confronti della RSI, direi che un po’ ci riesce. Poi però una radiotelevisione di servizio pubblico non ha il compito prioritario di essere inquisitoria, denunciante, d’opposizione. Deve avere una armoniosa somma di vettori di comprensione, spiegazione, formazione e informazione da una parte, e vettori di vigilanza e inchiesta dall’altra.
In una puntata di Controluce del 2 gennaio 2000 con l’ex-direttore RSI Marco Blaser dopo aver ricordato la grande apertura e lo sguardo sulla Svizzera e sul mondo che aveva caratterizzato la nostra radiotelevisione fin dagli inizi, lei chiese anche conto della tentazione latente di rifugiarsi nel localismo. A che punto siamo oggi, e rispetto ai tempi in cui lei stesso era a capo dell’informazione RSI?
Lo dicevamo sempre, di stare attenti all’eccessivo localismo: ma predicavamo bene e poi si faceva quel che si poteva. La domanda d’attenzione del “paese Svizzera italiana” è forte, invasiva. Abbiamo viziato molto la nostra realtà locale. E poi il “localismo” fa ascolto, è chiaro. Ma qui io da sempre non sono un fanatico degli indici d’ascolto. Certo, un servizio pubblico deve avere un pubblico e più ne ha meglio è. Ma accetterei un calo di qualche punto di ascolto in cambio di una offerta di qualità che tenga conto del mandato nazionale. Penso per esempio che non sarebbe necessario avere sempre fuori dal Gran Consiglio, ad ogni sessione, i carri radiotelevisivi delle grandi occasioni. La SSR non lo fa in nessun altro cantone, si tratta di un privilegio “cantonticinese”. Se la RSI invoca giustamente, nel dibattito generale sulla SSR (canone, chiavi di riparto eccetera) il principio del federalismo e della coesione nazionale, allora dovrebbe poter convertire un po’ di forze oggi risucchiate dal localismo minimo in qualche immaginazione nuova di approfondimento informativo e culturale di respiro ampio.
Nota:
Michele Fazioli, nato nel 1947, laureato in scienze politiche all’Università di Losanna, ha iniziato a lavorare alla RSI a vent’anni e vi è rimasto per 45 anni. Dal 1972 al 1976 vi ha lavorato a tempo parziale (d’estate, nelle vacanze semestrali e nei week end) per poter compiere gli studi universitari. Ha cominciato alla Radio, dove è stato anche capo dei programmi informativi nazionali e regionali, e poi alla Televisione. Per vent’anni, fino al 2007, ha diretto l’Informazione (cioè le testate giornalistiche) della Televisione. Ha diretto dal 1983 al 2007 i dibattiti politici cantonali e nazionali. Parallelamente, e fino al 2012, ha ideato e condotto programmi televisivi quali le interviste di Controluce e l’appuntamento settimanale sui libri. Attualmente è giornalista libero, titolare di rubriche per il Corriere del Ticino e il Giornale del Popolo. Ha creato un sito sui libri (www.circolodeilibri.ch).