Abbiamo chiesto ad Alessandro Ceschi, primario e direttore medico e scientifico dell'Istituto di Scienze Farmacologiche della Svizzera Italiana EOC e professore USI, una riflessione sulla mediatizzazione della pandemia e sulle conseguenze (anche sanitarie) di un’informazione scorretta e non basata sui fatti e sulla scienza.
Professor Ceschi, raramente un argomento ha avuto una copertura mediatica così importante nei media quanto il COVID-19 negli ultimi mesi. Lei crede che se ne stia parlando troppo e, forse, a sproposito?
Credo vada fatta una distinzione tra livello locale e situazione internazionale. È vero, come ha sottolineato anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che in alcuni casi ci si sia trovati di fronte a un’infodemia generalizzata e dannosa, al punto da essere fonte di dis-informazione e mis-informazione. Mi riferisco soprattutto alla comunicazione non verificata, scorretta e non appropriata che è veicolata su diversi canali dei social media, attraverso i quali tutti possono esprimersi sulla pandemia, anche senza avere le competenze e la necessaria adeguata preparazione in materia. Detto ciò, per quanto riguarda la Svizzera italiana, riconosco che la RSI e gli altri media televisivi, della carta stampata e online hanno fatto un buon lavoro nella comunicazione relativa al coronavirus. Certo, il tema è stato e rimane tutt’ora molto centrale, ma d’altra parte non potrebbe essere diversamente. Le persone cercano informazioni ed è bene che queste giungano da fonti attendibili, le quali facciano da contraltare autorevole alla disinformazione diffusa soprattutto sul web, che può rappresentare un problema concreto anche per la gestione della pandemia.
Si riferisce alla questione dei vaccini?
Sì, anche. L’informazione errata e fuorviante su temi centrali quali l’efficacia e la sicurezza dei vaccini anti-COVID propagata da certi siti online, è ben rappresentativa del fenomeno e degli importanti rischi connessi ad un’informazione scorretta e non basata sui fatti e sulla scienza. Mi permetta di ricordare che i vaccini di cui disponiamo, e in particolare quelli a tecnologia mRNA che usiamo già ormai da quasi un anno e che sono stati somministrati in svariati milioni di dosi in tutto il mondo (a livello globale siamo a quasi 7.5 miliardi di dosi di vaccini anti-COVID somministrate, con 31 milioni di dosi somministrate giornalmente), ma anche il vaccino di Johnson&Johnson, hanno un’elevata efficacia nel proteggere l’individuo da decorsi gravi o letali della malattia, aspetto fondamentale soprattutto nel caso in cui il soggetto è a rischio, come gli anziani e coloro che hanno patologie soggiacenti. Anche i giovani, tuttavia, non sono esenti da benefici dei vaccini, soprattutto ora che ci troviamo confrontati con la variante Delta, particolarmente contagiosa. Non sono infatti rari i ricoveri di persone non vaccinate sotto i sessant’anni in terapia intensiva. Inoltre, vediamo tanti giovani affetti da quello che ormai è noto come long covid, ovvero una serie di sintomi fisici e psichici/mentali duraturi quali strascichi dell’infezione da coronavirus. Al di là di queste ragioni più individuali, per vaccinarsi, ci sono anche motivi di natura più altruistica e sociale che riguardano l’impatto della pandemia sul sistema sanitario e sulla nostra società. Soprattutto durante le prime due ondate di COVID-19, si è fatto concreto il rischio del collasso del sistema sanitario a fronte del numero importante di malati gravi con necessità di terapia intensiva e corrispondente sovraccarico delle unità di cure intense. Questa situazione ha comportato il ritardo di presa a carico di diverse patologie rilevanti e, in alcune regioni colpite più duramente, persino il dover prendere difficili decisioni mediche di natura etica su quali pazienti poter curare. I vaccini sono stati un progresso decisivo nella lotta alla pandemia rallentandone la corsa e contribuendo sensibilmente a ridurre il carico sul sistema sanitario, con ricadute benefiche su tutta la società.
Tornando ai media, quali sono le maggiori sfide per una corretta comunicazione sulla pandemia e la sua gestione?
Da medico e ricercatore, mi permetto di indicarne una in particolare: direi la selezione accurata di informazioni basate su dati scientifici oggettivi, verificabili e di qualità; per farla breve, spesso per i media ciò si traduce nella scelta adeguata dell’interlocutore o intervistato. Con questo intendo sottolineare che la responsabilità dei media non è solo dare al pubblico informazioni sul COVID ma è fondamentale darle in modo corretto, esaustivo e comprensibile. È quindi importante coinvolgere autorità in campo medico-scientifico e specialisti che siano preparati e capaci di interloquire con un pubblico generico. In questo senso, i media hanno una grande responsabilità sociale: se il colloquio della società con la scienza viene favorito, reso più fruibile e rilevante per l’individuo, fatto di notizie oggettive e di qualità, ecco che la società stessa può solo uscirne rafforzata. E questo non vale solo per il COVID.
Di Valeria Camia