Verificare più volte le notizie. Almeno da due fonti indipendenti, se non tre, quando c’è odore di propaganda o disinformazione. Queste le basi del buon giornalismo e dell’informazione di qualità. E queste le regole che guidano il Newsdesk RSI (la redazione di informazione digitale), in particolare quando si parla di guerra in Ucraina. Il responsabile Antonio Civile racconta alla CORSI come funziona il lavoro quotidiano e perché il servizio pubblico può garantire informazioni particolarmente affidabili.
Che cosa è cambiato per la redazione web con lo scoppio della guerra?
“Si è trattato di passare in poco tempo dalla narrazione della pandemia, che aveva dei ritmi simili a quelli della guerra, a una guerra vera e propria. Abbiamo dovuto riadattare il nostro linguaggio e trovare il modo di raccontare quello che stava succedendo senza creare inutili allarmismi (per esempio sugli attacchi alle centrali atomiche), ma cercando di spiegare i fatti in modo il più possibile oggettivo. Nel nostro lavoro c’è la cronaca di ciò che accade ogni giorno, ma c’è anche la narrazione delle storie. E poi gli approfondimenti, che spiegano soprattutto il perché di quanto succede. Tutto questo si svolge in mezzo a una serie di campagne di propaganda orchestrate da entrambe le parti. Dobbiamo continuamente cercare di non cadere nella trappola delle notizie non verificate”.
La trappola delle notizie non verificate è ancora più insidiosa per chi non può andare sul posto. Voi come fate?
“Una delle grandi fortune che abbiamo noi come servizio pubblico è l’ampia scelta di risorse giornalistiche. Partiamo dalle basi, che sono le agenzie di stampa: la RSI ne ha a disposizione tante, variate, che fanno capo a loro volta a fonti diverse, hanno corrispondenti, fotografi e operatori video sul posto. In più la RSI ha i propri inviati e può collaborare con vari giornalisti indipendenti. Questa è una guerra molto mediatizzata, sul posto si possono raccogliere un’infinità di voci e testimonianze. Anche sui social, che rappresentano una grandissima risorsa per trovare informazioni, ma dove occorre fare molta attenzione. Quello che chiedo alla redazione è infatti di verificare più volte le notizie. Almeno da due fonti indipendenti, se non tre, quando c’è odore di propaganda o disinformazione. Non vanno mai dimenticate le regole base di chi fa questo mestiere: dobbiamo sempre chiederci se quello che stiamo ricevendo è di parte e se è di parte perché ce lo stanno dando, quali sono gli interessi della fonte. Lo stesso vale per le foto e i video: si deve verificare che riguardino davvero i fatti di cui vogliamo parlare. È capitato più volte che non lo fossero e l’abbiamo scoperto grazie alle verifiche effettuate su Internet. Ne abbiamo trovati diversi (utilizzati da entrambe le parti in conflitto) che in realtà provenivano da altri eventi e altre guerre. Video di bombardamenti in Siria, Iraq o Libano sono stati spacciati per video di bombardamenti in Ucraina”.
Avete contatti con persone in Ucraina che non sono giornalisti?
“Abbiamo diversi contatti da cui riceviamo informazioni, seppure con le difficoltà legate alla lingua. Ci sono colleghi che si sono messi a disposizione per cercare interpreti, abbiamo raccolto storie di situazioni molto diverse, cercando di sentire che cosa stava succedendo da chi era sul posto e da chi è fuggito ed è arrivato qui. Si cerca poi di capire che cosa e come contestualizzare: ogni giorno, oltre alla cronaca, proponiamo delle spiegazioni, che sono tra le cose che hanno avuto più seguito tra i nostri utenti”.
Le immagini di Bucha hanno fatto il giro del mondo, ma non tutti i media seguono gli stessi criteri per decidere che cosa è opportuno mostrare e che cosa no. La RSI come si muove rispetto a questo aspetto?
“In redazione ci siamo subito detti che avremmo cercato di evitare il voyeurismo, sia nelle immagini che nelle parole. L’abbiamo dichiarato subito, fin dall’inizio del conflitto: certe foto non le abbiamo mostrate ma magari le abbiamo raccontate, alcuni video li abbiamo tagliati. Sono punti di vista: c’è chi crede che la verità della guerra vada mostrata anche con le immagini più crude e non si pone censure (anche perché ormai in internet circolano immagini di ogni tipo) e invece c’è chi pone un limite, anche per rispetto alla dignità delle vittime. È chiaro che oggi la tentazione di mostrare quello che succede, per esempio a Bucha è forte. Ma se si pensa alle altre guerre si capisce che anche mostrare queste foto non serve a evitare che si ripetano queste atrocità. C’è poi l’effetto assuefazione, che ci porta a non indignarci più dopo un po’”.
Come si fa a restare oggettivi?
“Ci proviamo. Non ci limitiamo a ripetere quello che raccontano le agenzie, ma cerchiamo di seguire tutto quanto circola sul web. Come detto c’è molta propaganda, da entrambe le parti, ma al di là di tutto non va dimenticato che quelli che vengono bombardati sono i civili ucraini, non quelli russi”.
Una (piccola) parte del pubblico critica la RSI (e in generale i media europei) per una sua presunta posizione di parte, che darebbe visibilità solo alle vittime ucraine e non, per esempio, a quelle filorusse. Che cosa ne pensi?
“Proprio per essere in grado di dare una risposta, facciamo un grande lavoro di verifica. E ci è già capitato di dover avvisare qualcuno che ci ha contattati dicendogli che le sue fonti di informazione non sono attendibili. Le critiche ci possono sempre stare, non abbiamo nemmeno noi la verità assoluta, ma spesso non c’è la possibilità di avere una verifica indipendente su cose che ci vengono segnalate, soprattutto quando si parla di vittime del fuoco amico o filorusse”.
Come si gestisce a livello personale il peso delle notizie quotidiane di guerra, morte e distruzione?
“È difficile non portare a casa quello che vediamo e sentiamo tutto il giorno, che è molto più di quello che pubblichiamo. Per chi fa più fatica, la RSI ha messo a disposizione un sostegno. Ma in realtà credo che il rischio maggiore sia però l’assuefazione. È per questo che insistiamo nella ricerca di storie: è importante dare un volto e un nome a chi fugge, chi combatte, chi è impegnato in prima linea ad assistere e aiutare. Per questo abbiamo insistito per avere dei nostri inviati anche nei paesi vicini, ci ha permesso di umanizzare quello che sta succedendo”.
Giorgia Reclari Giampà, Segretariato CORSI
Hai trovato interessante questo articolo? Leggi anche l'intervista al giornalista RSI Pierre Ograbek e riguarda il video della serata CORSI del 2018, in cui l'ambasciatrice Heidi Tagliavini racconta del suo ruolo nelle trattative tra Russia e Ucraina che hanno portato al Protocollo di Minsk. (vedi sotto)