Il lavoro dell’inviato: fondamentale per raccogliere informazioni di prima mano, verificarle, riferire direttamente di quanto accade. Sempre con grande attenzione per la qualità perché “l’informazione è un bene estremamente prezioso: ha un ruolo determinante nel nutrire una società sana” come afferma Pierre Ograbek, giornalista RSI inviato in Ucraina, nell’intervista rilasciata alla CORSI.
Di che cosa ti sei occupato in riferimento alla guerra in Ucraina, nel tuo ruolo di inviato RSI?
“Ho iniziato a lavorare in Ucraina durante il sollevamento di Piazza Indipendenza a Kyiv (Kiev) (Euromaidan), nel 2014. Poi sono subito scoppiate le crisi nella Crimea invasa e annessa e la guerra nel Donbas parzialmente occupato da milizie filorusse. Ho percorso queste regioni, ho cercato di ascoltare le voci di chi ci vive, raccontando questi profondi stravolgimenti. E poi la mattina del 24 febbraio scorso sono subito partito per Leopoli, senza sapere assolutamente cosa avrei trovato in Ucraina. Gli aggiornamenti sull’invasione via terra e sui bombardamenti non permettevano di capire in che situazione mi sarei trovato”.
Che cosa hai trovato? C’è qualcosa di diverso rispetto alle fasi precedenti?
“Ho trovato un paese in parte immobilizzato e in parte in fuga da quest’improvviso attacco …anche se gli ucraini se l’erano immaginato in modo molto più chiaro rispetto a noi. A Leopoli ho trovato una città semideserta; i negozi e i ristoranti erano quasi tutti chiusi. Ma nei confronti dei giornalisti c’è stato un radicale cambiamento di atteggiamento: nei primissimi giorni abbiamo ricevuto poche indicazioni e poche limitazioni per l’esercizio del nostro lavoro; per le autorità ucraine era importante che potessimo documentare immediatamente ciò che stava accadendo”.
Quanto tempo sei rimasto, dove hai lavorato e quali eventi hai coperto?
“Ho trascorso un paio di settimane a Kyiv nel 2014, prima e dopo l’uccisione di un centinaio di manifestanti, proprio sotto le finestre della camera dove alloggiavo (ma in quel momento ero assente). Sono stato a due riprese in Crimea, sempre nel 2014, per seguire il voto sull’annessione della regione alla Russia e poi per vedere cosa fosse cambiato per i cittadini, dopo alcuni mesi. Ho visitato più volte il Donbas dopo lo scoppio della guerra, attraversando a varie riprese la linea del fronte e lavorando a Mariupol, Donetsk, Avdiivka, Lugansk, Slovyansk… E quest’anno ho lavorato per due settimane e mezzo a Leopoli, all’inizio degli attacchi russi su tutta l’Ucraina”.
Quali difficoltà hai incontrato in relazione al tuo lavoro?
“A Kyiv durante la rivoluzione di Euromaidan c’era sempre la minaccia di un attacco da parte della Polizia antisommossa, sempre lì schierata e pronta ad intervenire. Ma il problema più grosso da gestire in realtà era il freddo: tra i -10°C e i -20°C, tutti i giorni. In Crimea invece ho cercato di non dare nell’occhio: i soldati senza mostrine ed i miliziani che si aggiravano a Simferopoli non gradivano la presenza dei giornalisti. Nel Donbas ogni volta era un grattacapo: occorrevano dei permessi speciali per spostarsi; ogni 6 mesi circa cambiavano le modalità d’accredito, occorreva sempre aggiornarsi. E poi bisognava evitare di stare troppo a lungo vicino alla linea del fronte; era una guerra a bassa intensità, ma mai spenta. A Leopoli invece, nelle settimane scorse, ho potuto lavorare più liberamente; garantire le dirette radiofoniche e televisive invece era un grattacapo: le sirene d’allarme suonavano anche 3-4 volte a giorno e bisognava correre nel rifugio dell’hotel. E poi la connessione internet si è subito fatta più vacillante: in un paio di occasioni i miei reportage sono arrivati a Comano mentre già stavano scorrendo i titoli d’apertura del radiogiornale”.
Come hai organizzato il lavoro sul posto?
“Ho subito cercato dei contatti sul posto, delle persone a cui poter fare riferimento per avere indicazioni e conferme o smentite su ciò che stava accadendo in città e nella regione di Leopoli, confrontando le varie fonti. Da tutta l’Ucraina ricevevo un fiume di informazioni. C’era un’incertezza totale su dove l’esercito russo avrebbe colpito ancora. E quindi anch’io, come tutti i cittadini ucraini, ho trascorso ore e ore con lo smartphone in mano, leggendo gli aggiornamenti e chiedendo informazioni a persone che si trovavano in altri luoghi del paese. Poi però, molto semplicemente, uscivo in città per vedere cosa stesse succedendo, incontrando molte persone, raccogliendo testimonianze”.
Quanto è difficile svolgere il proprio lavoro in modo oggettivo in un contesto in cui la propaganda e la disinformazione prevalgono e la verifica delle informazioni è molto difficile?
“Essere sul posto permette di analizzare molto meglio le informazioni che quotidianamente vengono proposte dai due schieramenti. Le chiacchierate con i pensionati del Donbas, ormai un po’ rassegnati, senza più molto da perdere, fornivano sempre indicazioni molto preziose, ad esempio. Tutte quante le informazioni ricevute vanno soppesate, verificate nel limite del possibile. E l’indipendenza ha il suo prezzo: ad un certo punto ero diventato in qualche modo una “persona non grata” da entrambi i lati del fronte lungo il Donbas; per un po’ di tempo non ho potuto tornarci. Ora invece, all’inizio degli attacchi russi sull’Ucraina nel febbraio scorso, è stata concessa maggior libertà per facilitare il lavoro dei giornalisti stranieri venuti a coprire questa guerra”.
Quale responsabilità ha un giornalista di servizio pubblico proprio nella verifica delle informazioni e nella confezione di contributi quanto più possibile oggettivi e di qualità?
“Sono giornalista per passione e lavoro per il servizio pubblico per convinzione. L’informazione è un bene estremamente prezioso. Ha un ruolo determinante nel nutrire una società sana. Se non lavorassi per il servizio pubblico non sarei stato mandato in Ucraina; non credo che un editore avrebbe investito in questo tipo di lavoro. Non avrei potuto raccontare gli stravolgimenti degli ultimi 8 anni. Avremmo dovuto accontentarci di quanto narravano i colleghi stranieri, attingendo a loro anche adesso”.
Quali le difficoltà, anche a livello personale, nel gestire e selezionare le storie che possono essere raccontate e quelle che invece è opportuno non riferire/rendere pubbliche?
“Non mi sono mai posto forme di auto-censura. Però in più di un’occasione negli anni scorsi sono stato bloccato o minacciato sul posto, non mi è stato permesso di raccontare per lo meno in modo completo ciò che stavo vedendo. Nelle zone di guerra in particolare vigono delle regole che impongono determinate restrizioni ai giornalisti. A Leopoli ho ricevuto indicazioni piuttosto chiare per non violare la legge marziale in vigore. Ma non di rado le regole dipendono anche dall’umore dei combattenti. In quei casi allora sì, bisogna stare particolarmente attenti”.
Giorgia Reclari Giampà, Segretariato CORSI
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