Carlo Calanchini è primario del reparto di psichiatria e psicoterapia dell’Ospedale Malcantonese di Castelrotto dal 2001. È stato presidente della Società Ticinese di Psichiatria dal 1989 al 1998 e è membro del Gruppo Ticinese responsabile della formazione post-universitaria degli specializzandi in psichiatria e psicoterapia. A lui, abbiamo chiesto qual è l’impatto della pandemia sulla nostra psiche e un giudizio personale sul lavoro d’informazione profuso del servizio pubblico dei media durante i mesi segnati dal coronavirus.
Dottor Calanchini, partiamo dai media: come giudica l’approccio del servizio pubblico radiotelevisivo della Svizzera italiana a fronte dell’emergenza causata dal diffondersi del virus?
“Si fa quel che si può con quello che si ha”. Nei modesti limiti del mio possibile, mi sembra che i media della Svizzera italiana abbiano dato una copertura estesa, continuativa e per quanto possibile approfondita dell’emergenza coronavirus; e non è certo stato, né è, un compito facile.
Come avete affrontato, invece, voi, medici e operatori sanitari, il mesi passati e l’evolversi della pandemia?
Per gli operatori sanitari c’è stato il sovraccarico di lavoro e il rischio accresciuto di contagio; ci sono state “morti professionali” - e non poche - soprattutto nella prima durissima fase. E poi disagi per turni prolungati e il distacco dalle famiglie, ma c’è stato anche l’esempio di abnegazione e di senso del dovere che è doveroso ricordare ed encomiare; personalmente, posso dire di essere fiero della mia équipe psichiatrica che, senza batter ciglio, si è riconvertita in équipe di cure generali (dalle quali le mie infermiere/i miei infermieri per lo più provengono) per gestire, per diversi mesi, un reparto COVID post-acuto.
Più in generale, cosa ci dicono i dati e la clinica circa l’effetto a breve e lungo termine della pandemia sulle persone dal punto di vista psicologico?
Non è possibile dare una risposta generale a una domanda piuttosto complessa come questa. Vale forse la pena di ricordare qui il grande medico internista Sir William Osler (1849-1919), che scriveva che “La variabilità è la legge della vita, e come non ci sono due facce uguali, così non ci sono due corpi uguali, e non ci sono due individui che reagiscono allo stesso modo e si comportano allo stesso modo nelle condizioni anormali che conosciamo come malattia”. Le reazioni psicologiche sono, se possibile, ancor più sfumate e variabili di quelle somatiche, e dipendono non solo dalla malattia (nel nostro caso uguale per tutti, almeno nella causa – il SARS-COVID 19) ma anche, e soprattutto, dal suo decorso. Come sappiamo, la gran parte degli ammalati ha avuto un decorso benigno o addirittura asintomatico, altri hanno passato settimane o mesi in ospedale e si sono confrontati con la morte, quando non sono deceduti. Chi, come me, ha avuto un decorso blandissimo, può aver nutrito qualche preoccupazione transitoria nel timore di un aggravamento, ma l’evoluzione favorevole l’ha presto rasserenato; chi invece ha sofferto a lungo di disturbi respiratori (solo per accennare ai sintomi più comuni) non è sfuggito all’angoscia, senza dimenticare i disturbi “secondari” come l’insonnia, i dolori e la sofferenza, anche psichica, che ad essi si accompagna. Questo per quanto riguarda la fase acuta. Nella fase post-acuta, superato il pericolo immediato, sono emersi altri disturbi: spossatezza, debolezza, depressione, disturbi cognitivi (della memoria, della concentrazione, ecc.). Paradossalmente, alcune persone che soffrivano di disturbi psichici prima dell’esordio della pandemia si sono sentite meglio, sebbene per motivi difficilmente condivisibili. C’è stato, per esempio l’agorafobico che, durante il “lock down” stava meglio perché “ora tutti sono come me, chiusi in casa”, o il perennemente ansioso che nella pandemia ha trovato una giustificazione alle sue apprensioni e tanti altri “neo-ansiosi” con cui condividerle. Altrettanto paradossalmente, ci sono state persone che “stavano bene”, “erano normali” e che, di fronte alla pandemia, hanno lasciato emergere, per così dire, una patologia latente. Ci siamo confrontati (e non è finita) con schiere di “paranoici circostanziali”, che di certo non consultano lo psichiatra (nemmeno i paranoici abituali lo fanno, di regola) ma hanno iniziato a covare, e talvolta a proclamare, sul virus prima, sui vaccini poi, le loro indimostrabili verità, in barba ai dati raccolti dalla comunità scientifica.
La paura è stata anche alimentata dalla politica e da una comunicazione sbagliata?
Purtroppo, ci sono state comunicazioni che non avevano nulla a che fare con la serietà che il momento richiedeva. Esempi concreti sono le dichiarazioni di Donald Trump, secondo il quale la SARS-COVID era curabile con l’idrossiclorochina o – addirittura – con iniezioni endovenose di disinfettanti salvo poi – una volta ammalatosi - ricorrere (cosa che ben pochi altri avrebbero potuto fare) a terapie di ultima generazione frutto di ben altre competenze, per poi gloriarsi del proprio rapido ristabilimento, quasi fosse dovuto ai propri “ultrapoteri”. Difficile valutare l’influenza che esempi come questo, espressione di un narcisismo acritico più diffuso del coronavirus, possano avere sull’opinione pubblica e sul comportamento generale della popolazione, ma è certo che non può essere positiva. Affermazioni più volte ripetute come “siamo in guerra” sono inopportune. A meno di non voler indebitamente ampliare il senso di “guerra” a ogni situazione di crisi, pericolo, difficoltà sconosciuta (ma allora bisognerebbe dirlo, e spiegare perché lo si fa); parlare di “guerra” non può che suscitare paura e angoscia, sulle quali l’apparente urgenza del momento non lascia il tempo di riflettere per contenerle. Non siamo stati, né siamo, in guerra - un flagello ben peggiore in cui è l’Uomo a volere la distruzione dell’Uomo-nemico. Nel contesto pandemico, pur con tutte le rivalità, le concorrenze e gli egoismi nazionali, ci si è dati da fare dappertutto per limitare i danni e trovare rimedi. Che alcuni (o molti) poi non li vogliano utilizzare, e perché, sarà oggetto di discussione per molto tempo.
Un’ultima domanda: con il senno di poi, la scienza poteva fare di più o meglio per combattere la pandemia?
Mi permetto qualche considerazione generale: la pandemia ha sorpreso tutti, tranne forse quei pochi esperti chiaroveggenti che se ne aspettavano una, presto o tardi, e che hanno avuto – profeti di sventura – l’ascolto della biblica voce di colui che grida nel deserto. Ma anche se una pandemia, in generale, poteva essere prevista, più difficile era anticiparne la rapidissima diffusione e impossibile era trovarne il rimedio, che presuppone la conoscenza precisa delle cause. A quest’ultimo scopo, è stato necessario identificare il virus e produrre i vaccini. Ciò è stato fatto in tempi molto brevi, grazie a sinergie e collaborazioni a molti livelli, e grazie agli scambi di informazioni nella comunità scientifica, che deve poter continuare a “lavorare in rete” senza ostacoli.
Di Valeria Camia