In occasione del convegno “L'italofonia e il ruolo del servizio pubblico dei media”, Federico Luisetti, filosofo e professore associato di cultura e società italiana all'Università di San Gallo, aprirà la tavola rotonda dedicata alle cattedre e alle aspettative dei docenti relativamente al servizio pubblico dei media. In previsione di questo momento di discussione, che si terrà nel pomeriggio di sabato 7 maggio, abbiamo chiesto al professore, titolare della cattedra a San Gallo, cosa significhi insegnare italiano nel contesto del plurilinguismo elvetico.
Professore Luisetti, possiamo dire che, a fronte dei forti cambiamenti socio-linguistici e del ruolo crescente dell'inglese, garantire la presenza delle facoltà di italianistica in Svizzera è una questione determinante per la coesione nazionale?
“La presenza delle facoltà di italianistica nelle università svizzere è necessaria per favorire il plurilinguismo e la diversità culturale. È fondamentale che l'italiano venga insegnato anche nella scuola primaria e secondaria, in modo da garantire un ampio accesso alla formazione linguistica e culturale. La coesione nazionale svizzera presuppone la valorizzazione di tutte le lingue nazionali”.
Quanta italianità c’è nei suoi corsi?
“Ho trascorso 25 anni all'estero e questo mi ha insegnato a riconoscere la profonda influenza della cultura italiana sul mio modo di affrontare la ricerca e l'insegnamento. Cerco di trasmettere agli studenti la passione per l'impegno critico: il sapere non è mai neutrale ma trasforma la realtà. Bisogna dunque valutarne le conseguenze e interrogarsi sul suo impatto sociale”.
In che senso?
“Gli studenti dell'Università di San Gallo hanno la possibilità di studiare la lingua italiana e anche di seguire corsi su aspetti storico-culturali specifici, quali la teoria politica e la storia ambientale. Offriamo anche lezioni pubbliche per la cittadinanza su una varietà di argomenti, dal medioevo ad oggi. Le competenze linguistiche aiutano a rafforzare la capacità di analisi critica della realtà storica e di quella attuale”.
Ritiene che, nell’era digitale, l’apprendimento della cultura e della lingua italiana possa prescindere dagli stimoli delle tecnologie digitali?
“Le tecnologie digitali sono diventate una seconda natura. La pandemia ha mostrato però chiaramente quali siano i loro limiti e come debbano essere messe al servizio della comunicazione in presenza. Un approccio critico alle tecnologie digitali deve metterne in luce anche il devastante impatto ecologico: ad esempio, si stima che nel 2040 le tecnologie digitali saranno responsabili del 14% delle emissioni globali di CO2”.
Un altro elemento sul quale vorrei riflettere è l’interdisciplinarietà. Crede che le nuove generazioni debbano uscire da una logica rigidamente disciplinare e aprirsi a un sapere universale e integrato? La sua stessa ricerca è multidisciplinare. E che cosa significa questo, applicato agli studi della cultura italiana?
“Ogni volta che entriamo in contatto con la realtà utilizziamo un approccio interdisciplinare: attiviamo cioè saperi di vario tipo, pratici e teorici, storici e tecnici, quantitativi e qualitativi. Anche per cuocere un uovo abbiamo bisogno di tecnica e memoria, percezione estetica e misurazione del tempo. I rigidi confini tra le discipline permettono ad alcune di esse di modellare il mondo esterno a loro piacimento – penso ad esempio alle scienze economiche – e condannano le altre a una funzione ancillare. Nei miei corsi cerco di mostrare come alcuni intellettuali italiani – un nome su tutti, Niccolò Machiavelli – abbiamo ridisegnato la nostra percezione della società e della cultura, della politica e dell'arte, proprio mettendo in discussione gli specialismi della loro epoca”.
Di Valeria Camia
Foto by Hannes Thalmann, Universität St. Gallen