Nessuno di noi, scaltri abitanti del mondo interconnesso, si fida ciecamente di ciò che incontra in rete. Eppure ogni giorno c’è chi si indigna per i gattini bonsai o assume detersivi come medicinali, e le fake news girano come un uragano nella rete. Capire su quali informazioni fare affidamento nel mare digitale è tutt’altro che semplice.
L’ho visto in TV
Mia nonna, nata nei primi del ‘900, per sostenere la verità di un fatto diceva "l'han fatto vedere in TV" (anche nella variante “l’han detto alla radio”). Noi nipoti assentivamo.
Questa affermazione sintetizzava due argomenti autoevidenti, inconfutabili e decisivi per la generazione televisiva. Il primo era che se una cosa l’avevi vista, era successa: era la traduzione pratica del potere dell’immagine, che “catturava” la realtà e la trasmetteva a chilometri di distanza. Vedere era credere, perché, attraverso la tecnologia, i fatti riaccadevano proprio davanti ai nostri occhi.
Il secondo argomento riguardava invece la fiducia: in origine la TV era gestita dalle emittenti nazionali di servizio pubblico (nel caso di mia nonna, la RAI), e quindi gli spettatori estendevano alle trasmissioni televisive la fiducia che nutrivano per le istituzioni.
Oggi questi due argomenti hanno perso forza: sia il “vedere nei media” che il “fidarsi dei media” non sono più criteri sufficienti per determinare il grado di affidabilità delle informazioni che troviamo in rete: “l’ho visto su internet” non convince nessuno, nemmeno i nipoti.
Vedere non è più credere
A ben vedere, l’immagine non è mai (e non è mai stata) lo stesso che il fatto. Ogni fotografia o video è sempre una mediazione, cioè un racconto del fatto creato da un autore che assume inevitabilmente un certo punto di vista e ha un determinato fine. Ce lo ha insegnato Magritte, la cui pipa non è appunto una pipa, ma la rappresentazione di una pipa.
Così anche nella cronaca: la stessa manifestazione può essere presentata come un radioso popolo di giusti che guideranno il mondo verso un futuro migliore, o come una sguaiata compagine di imbecilli che disturbano l’ordine pubblico. Un buon fotografo è capace di trovare facilmente lo scatto giusto per raccontare le medesime persone come manifestanti ispirati o fanatici violenti. Anche il numero dei partecipanti alle manifestazioni di piazza è spesso molto diverso se viene riportato dalla polizia o dagli organizzatori – perché ogni notizia è racconto.
Inoltre, grazie alla digitalizzazione, l’immagine oggi non è più “pura”: sappiamo che ogni fotografia può essere stata ritoccata e ogni video montato ad arte e arricchito con effetti speciali. L’intelligenza artificiale ha prodotto anche i cosiddetti deep fake, immagini e video generati artificialmente del tutto indistinguibili da un originale: in rete trovate fotografie di persone che non esistono e video di personaggi famosi che dicono cose che in realtà non hanno mai detto. La digitalizzazione ha reso anche l’immagine una tipologia di informazione fluida e malleabile.
(Non) ti puoi fidare
Il secondo argomento sotteso all’affermazione di mia nonna era la fiducia: se i media ufficiali, quelli del governo, dicevano che in India c’era siccità, era sicuramente così.
Oggi la maggior parte delle notizie che riceviamo assomigliano alla siccità in India: ci riguardano, ma non sono direttamente verificabili da parte nostra perché si riferiscono ad accadimenti lontani dal nostro raggio di esperienza – dall’Ucraina al vaiolo delle scimmie, dal James Webb Telescope alle elezioni negli stati dell’America Latina. Se non possiamo verificare di persona, in base a cosa decidiamo di dare la nostra fiducia e di ritenere affidabili determinate informazioni?
Un criterio che spesso usiamo è quello della plausibilità: quando incontriamo una notizia ci chiediamo se sembra possibile. Questo criterio, se applicato da solo, è molto rischioso, perché nessuno è esperto di tutto e difficilmente sapremo valutare con la necessaria l’effettiva plausibilità di notizie di guerra o scientifiche. La storia ci insegna poi che fatti ritenuti impossibili si sono verificati, dall’allunaggio fino al ritorno della guerra in Europa. Infine, chi cerca di ingannarci spesso conosce il mestiere e lo fa con competenza e stile.
Con il lancio del suo motore di ricerca nel 1998, Google ha introdotto un criterio che ha poi fatto fortuna nel web: la popolarità. Grazie all’algoritmo noto come PageRank, Google Search è in grado di identificare le pagine più visitate e linkate della rete e di proporle come risultati “migliori” alle nostre ricerche. L’idea era ed è geniale, perché i computer, per quanto potenti, non conoscono il mondo e non sono in grado di valutare la qualità di un’informazione – quindi ad esempio quanto corrisponda alla realtà o quanto sia equilibrata nel presentarla. Valutarne la popolarità è un buon surrogato, che si è rivelato nel tempo efficiente e vincente.
Intuitivamente tutti capiamo che “più popolare” non significa “più vero” e che anche la maggioranza può sbagliare o essere indotta in errore… ciononostante la regola della popolarità è stata assunta senza riserve dai social network, da Facebook fino a TikTok passando per YouTube e Instagram, che ci mostrano solo ciò che il nostro algoritmo, nutrito di visualizzazioni, interazioni e like, sceglie per noi.
Il tema è tutt’altro che secondario, tanto che il Presidente degli Stati Uniti Biden il primo maggio 2022 ha creato, all’interno del Dipartimento della Difesa, il Disinformation Governance Board, proprio con l’intento di combattere la disinformazione e la diffusione di fake news in rete. Meno di tre settimane dopo lo stesso Biden ha dovuto però sospendere il mandato del neo-creato Board, rapidamente etichettato “Ministero della Verità” e duramente criticato dall’opposizione. Perché anche gli esperti dell’informazione sono persone, e la linea tra eliminazione della disinformazione e censura è estremamente sottile. (Per inciso, questa piccola ma significativa storia, come molte altre, non è circolata alle nostre latitudini, probabilmente ritenuta poco importante per i cittadini svizzeri).
Siamo dunque predestinati a vivere unicamente con informazioni incerte? È giustificabile un atteggiamento generalizzato di sfiducia nei confronti dei media e dell’informazione?
Selezionare le fonti
Negli anni 2000, quando internet iniziava a diffondersi, si sono moltiplicate le indicazioni per insegnare come selezionare documenti e fonti di qualità. Ad esempio, il modello RADAR proponeva di leggere (o guardare) con attenzione i documenti e considerare rilevanza (il documento parla di ciò che mi interessa o lo fa solo marginalmente?), autorità (chi scrive è competente?), aggiornamento (il documento è recente?), qualità formale (il documento è ben scritto?), finalità (che scopo ha l’autore?).
Oggi, nell’era dei social, valutare l’affidabilità è più complesso, perché gli autori e le fonti che incontriamo in rete sono potenzialmente infiniti. Gli studi più recenti, come ad esempio quelli dello Stanford History Education Group, propongono una pratica diversa, chiamata lateral reading. In sostanza per capire se fidarci di un documento non conviene subito leggerlo a fondo, ma bisogna prima cercare di capire di che cosa si tratta, cioè interrogarsi su che cosa stiamo leggendo e da dove arrivi: è un comunicato stampa, un articolo di giornale, un commento individuale, un’intervista a un esperto? È un testo completo o uno stralcio? È possibile trovare informazioni sull’autore? Ricostruire il contesto del documento fornisce elementi fondamentali per interpretarne e valutarne i contenuti.
La sfida è andare oltre la nostra percezione del contenuto: a volte una notizia ci sembra assolutamente vera semplicemente perché corrisponde alle nostre convinzioni, e anzi ci indigna – ma il punto è: stiamo dando fiducia sulla base della pancia o della testa?
Finalità e servizio pubblico
Un elemento chiave nel valutare l’affidabilità delle informazioni è la finalità, cioè chiedersi perché il testo, video o immagine che sto considerando è stato pubblicato dal suo autore. L’esercizio è semplice con i messaggi pubblicitari (anche se non quanto si possa credere), ma diventa rapidamente difficile se consideriamo documentari, notizie di cronaca o politiche, interviste, o altri documenti.
Proprio per questo un buon autore e un buon giornalista dovrebbero sempre dichiarare esplicitamente la propria finalità (soprattutto su temi controversi), e distinguere, per quanto possibile, i fatti da interpretazioni e commenti. L’autore ha lo scopo di informare o di convincere? Vuole aiutare a capire o guadagnare adepti o sostenitori?
Pubblica qualcosa perché crede sia importante o perché attrae investimenti pubblicitari?
Da questo punto di vista il servizio pubblico di uno stato, se non è tenuto al guinzaglio dal proprio governo, gode di una posizione speciale. La sua missione istituzionale, infatti, è informare con qualità e idealmente senza vincoli di rendimento pubblicitario o di popolarità, e di rispecchiare al suo interno la pluralità di visioni della nazione che serve. È una grande sfida, perché significa in qualche modo diventare un’organizzazione dinamica, in cui professionisti di estrazione diversa possano collaborare per offrire al pubblico una visione articolata e non monodirezionale di quanto accade.
Questo evidentemente non significa che non esistono canali informativi privati di grande qualità ed eticità, capaci di gestire le dinamiche economiche che ne garantiscono la sopravvivenza in modo da mantenere e anzi rafforzare la propria libertà di espressione, e che coltivano attentamente la professionalità dei propri collaboratori.
È anche la diversità degli attori del sistema mediatico che, combinata con lo sviluppo di solide competenze informative e critiche nei cittadini, permette di contare su un’informazione capace di rispecchiare e di aiutarci a capire la complessità del mondo in cui viviamo, con le sue ombre e le sue luci.
Luca Botturi, professore in media in educazione della SUPSI