Giornalista, documentarista, scrittore e guida alpina, Mario Casella ha lavorato per 36 anni per la RSI, sia in cronaca che nella produzione di documentari. È prepensionato da un paio d'anni. Le montagne e i suoi abitanti hanno sempre avuto un ruolo centrale nel suo lavoro. Lo abbiamo incontrato, in vista dell’evento SSR.CORSI Dalle creste ai ghiacciai: in cammino nel Grigioni italiano.
Come è nata la sua passione per la montagna?
"Credo innanzitutto dalla passione per le camminate in montagna trasmessami dai miei genitori. Il resto è avvenuto quasi per caso. Sono cresciuto a Bellinzona a poche centinaia di metri dalla palestra di roccia di San Paolo dove con alcuni amici (avevamo credo 13-14 anni) dopo un primo corso di roccia con il Club alpino iniziammo ad arrampicare un po’ di nascosto dai nostri genitori. La passione si sviluppò come il frutto di un forte (e tuttora radicato) legame d’amicizia nato tra un gruppo di ragazzi".
Da grigionese, qual è la sua vetta preferita del Grigioni italiano e perché?
“Pur avendo frequentato le scuole a Bellinzona e l’Università a Ginevra, è vero che posso considerarmi un grigionese mezzo sangue. Mio padre abita ancora a Roveredo e da bambino ho trascorso tutte le estati sul monte Laura. Terminati gli studi ho poi insegnato a Roveredo prima di iniziare a lavorare a tempo parziale come giornalista per la Radio della Svizzera italiana. Era la metà degli anni ’80 e per oltre un decennio ho abitato a San Vittore in Mesolcina.
Per rispondere alla domanda: da decenni frequento soprattutto il massiccio del Bernina e trascorro vari mesi invernali ed estivi in Alta Engadina. È una regione che prediligo e dove riesco a lavorare come guida alpina, sia in forma indipendente che come collaboratore della Bergsteigerschule di Pontresina. Tutto ciò mi ha portato a salire decine e decine di volte in vetta all’iconico Piz Palü. Una montagna che adoro e che mi riserva ogni volta forti emozioni al momento dell’arrivo in vetta”.
Qual è il documentario o la trasmissione che più le è piaciuto realizzare (o che le ha dato più emozioni)?
“Ogni documentario è il frutto di un lungo e talvolta sofferto lavoro che produce intense emozioni. Quando il prodotto finale viene trasmesso da un emittente TV o viene proiettato sullo schermo di un cinema si vivono sensazioni che potremmo paragonare a quelle vissute da un alpinista quando dopo un’impegnativa scalata raggiunge la cima.
Uno dei ricordi più forti è senz’altro legato alla realizzazione del documentario “Braggio. Un mondo appeso a un filo” (1995). Fu uno dei miei primi lavori al fianco di Fulvio Mariani. La produzione fu finanziata in modo indipendente e con il sostegno dall’allora RTSI. Conoscevo già la Val Calanca e avevo sentito parlare delle divergenze d’opinione generate tra la popolazione di Braggio (non più di una cinquantina di persone) dal progetto di costruire una strada forestale che avrebbe collegato al fondovalle il villaggio fino ad allora accessibile solo con la teleferica. Per un anno seguimmo a scadenze regolari lo sviluppo del dibattito illustrando le vite di alcuni abitanti. Raccontare la ricerca d’identità di chi vive in montagna sarebbe poi diventato il filo conduttore di una lunga produzione che con Fulvio Mariani ci ha portato sulle montagne meno conosciute del mondo: dall’Iran all’Afghanistan, dall’Altai in Cina fino alle montagne del Caucaso”.
Lei ha ideato trasmissioni e prodotto molti documentari e servizi per la RSI, dedicati alle montagne e all’alpinismo. Qual è il ruolo del servizio pubblico nella promozione di questo genere di trasmissioni?
“Credo che in passato la RSI abbia un po’ trascurato la cultura alpina e il racconto delle attività, non solo sportive, di chi vive o frequenta con assiduità la montagna. Per anni io, Fulvio Mariani e altri colleghi abbiamo faticato a convincere i responsabili di quei tempi che sulle nostre montagne, nelle nostre vallate c’erano potenti storie umane che andavano documentate e raccontate. Oltre una dozzina di anni fa riuscimmo a convincere la direzione a dar fiducia ad un programma sperimentale: “Sottosopra”. Ora il programma è giunto alla sua tredicesima stagione, una longevità che è la prova che non sbagliammo ad insistere.
Nel frattempo la montagna – complice forse anche l’isolamento imposto a tutti dalla pandemia – è diventata di moda. Con il passare degli anni sono nate anche altre produzioni televisive che raccontano traversate e vite di personaggi delle nostre Terre Alte. Tutti lavori che hanno sempre raccolto una forte risposta di pubblico.
Credo che molte di queste produzioni abbiano aiutato il pubblico della Svizzera italiana a meglio conoscere quei territori e quelle personalità che con le loro esperienze in quota possono suggerire un tipo di vita più sostenibile e incoraggiante per le nuove generazioni. Riflessioni con immagini e suoni su questioni centrali come il clima, il rispetto dell’acqua, la preservazione dei boschi, della fauna e del paesaggio alpino e altro ancora devono a mio modo di vedere, assumere un ruolo prioritario del mandato di servizio della RSI".
Oltre alla pandemia, come si spiega il crescente successo di pubblico delle trasmissioni RSI dedicate alla montagna?
“Le ragioni di questo successo sono legate in parte a quanto espresso nella riposta precedente. Un ingrediente fondamentale in questa formula di successo del tema montagna è anche quello dell’alta professionalità del personale tecnico di ripresa e di post-produzione. La forte tradizione documentaristica della RSI – riconosciuta anche più volte a livello internazionale – ci ha abituati ad un altissimo livello qualitativo dei prodotti trasmessi. I telespettatori questo lo hanno sempre riconosciuto: anche chi non ha conoscenze tecniche di ripresa o capacità alpinistiche particolari capisce cosa significhi registrare un buon suono durante un temporale di montagna o trasmettere la sensazione di freddo della neve e del ghiaccio con delle immagini. È per questo che il pubblico – talvolta anche solo a livello inconscio – capisce e apprezza doppiamente le narrazioni documentaristiche di questo tipo”.
Come è cambiato negli anni il modo di realizzare i documentari e le trasmissioni sull’alpinismo?
“È una domanda che apre un tema molto interessante e che esigerebbe una risposta molto lunga ed elaborata. Mi limiterò ad elencare qui, un po’ a casaccio, alcuni elementi di riflessione. Per l’aspetto tecnico ne cito solo due: la digitalizzazione/ miniaturizzazione del materiale di ripresa video-suono e l’uso dei droni.
Per i contenuti e la drammaturgia del racconto documentaristico è evidente che nella cinematografia di montagna l’aspetto sportivo e di prestazione alpinistica è ormai passato in secondo piano. Ad imporsi tra il pubblico sono ormai le storie umane, le vite trascorse per obbligo e per passione tra le montagne. Storie di cui un pubblico che vive ai piedi dell’arco alpino, come quello della Svizzera italiana, ha sempre più bisogno per capire chi siamo e dove vogliamo andare”.
Giorgia Reclari Giampà, Segretariato SSR.CORSI