Cosa pensa della Cultura alla RSI chi “vive” di parole? Lo abbiamo chiesto a Begoña Feijoó Fariña, scrittrice e presidente della sezione Valposchiavo della Pro Grigioni Italiano, e fondatrice, con Chiara Balsarini, della compagnia teatrale «inauDita».
Partiamo da una definizione e una precisazione: secondo lei, che oltre a essere utente della RSI è anche scrittrice e persona che vive “di cultura”, cos’è il contenuto culturale della RSI e dove possiamo trovarlo?
Ritengo che oggi la RSI offra un servizio culturale di altissimo livello. Penso a programmi che si occupano per esempio di cultura in ambiti diversi e che ci permettono di rimanere aggiornati sia sugli eventi in programma nella Svizzera italiana sia sul panorama culturale contemporaneo, italofono e non, quali Domani è un altro giorno, Laser o Diderot, per citare solo i primi che mi vengono in mente. Considero poi di grande importanza il ruolo di realtà produttrice che la RSI ha per la Svizzera italiana. Mi riferisco, per esempio, ai tanti radiodrammi che la RSI produce e che sono spesso strettamente legati a realtà culturali e storiche del nostro territorio. Programmi che contribuiscono, a mio avviso, a rafforzare anche il senso di comunità dei radioascoltatori.
Gli ultimi mesi sono stati segnati da dibattiti sulla trasformazione di Rete Due in un canale quasi prettamente musicale. Per quanto la musica sia, certamente, cultura, non dovrebbe continuare a esserlo insieme alle altre forme di cultura?
La musica è cultura. Su questo credo non siano possibili opinioni contrastanti. Vanno però a mio avviso considerate due realtà che sarebbe un errore ignorare. Innanzitutto, oggi la musica, intesa soprattutto come intrattenimento ma non solo, viene ascoltata attraverso altri canali. La mia generazione e, ancora di più, quelle dopo la mia, hanno un legame diverso con la musica da quello che potevano avere i nostri nonni. Un tempo si ascoltava quasi sempre, seppur non solo, ciò che il servizio offriva; si accendeva la radio e si ascoltava ciò che c’era. Al massimo si poteva scegliere l’emittente. Oggi il tempo che siamo disposti a spendere tra la nascita del desiderio e la sua soddisfazione si è molto ridotto: conosco i miei gusti, voglio ascoltare della musica e vado su YouTube, Spotify, metto un cd nel lettore, ecc. Ecco che, dal punto di vista musicale, il ruolo della radio è forse quello di sorprenderci, essere un luogo in cui andiamo per vivere esperienze non sempre vicine alle nostre abitudini e da questo punto di vista, arricchirci, anche quando incontriamo qualcosa che non amiamo. In secondo luogo, dobbiamo essere coscienti che non sempre la musica “che va di più” è quella culturalmente o artisticamente più interessante (non dico di valore, poiché credo non spetti a me decidere in proposito né esprimere un giudizio, che sarebbe soggettivo non essendo io un’esperta in fatto di musica). Sul fatto che la musica debba essere presente insieme alle altre forme di cultura, ho in parte risposto precedentemente. Mi sento però di rafforzare la mia posizione: sì, deve! È ovvio che pensare alla musica in radio è più naturale e automatico che non pensare per esempio alla scultura. L’una è trasmessa attraverso il mezzo stesso con cui è creata (le onde sonore) l’altra deve essere in qualche modo trasformata in parola per essere portata in radio. Ricordiamoci però quanto spesso le varie forme d’arte lavorano insieme: la letteratura con la musica, la parola con le arti plastiche. Insomma, la realtà ci mostra che tutto sta insieme, perché negare alla radio e ai radioascoltatori di conoscere questo tutto attraverso uno strumento che entra quotidianamente nelle loro case?
La cultura lavora nel costruire un progetto di cittadinanza, anche in maniera scomoda: puntare sull’intrattenimento non rischierebbe di distrarre da questo obiettivo?
Lo farebbe senz’altro! L’intrattenimento è necessario. Viviamo tutti di corsa, abbiamo mille pensieri per la testa e molti non vedono l’ora di stare senza pensare per qualche minuto o ora al giorno. C’è però un grande ma: l’intrattenimento non può ricoprire tutto il tempo lasciato libero dagli “obblighi”. Permettere questo, come cittadini, credo significherebbe arrendersi al fatto che quando non siamo “utilizzabili” e possiamo essere spenti. Ritengo ciò un atteggiamento gravissimo nei confronti delle qualità umane e sociali di ognuno di noi. Lei giustamente parla di cittadinanza: la cittadinanza non deve essere un’entità immaginaria e non concreta. La cittadinanza è costruita e data dall’insieme dei singoli. Ecco allora che l’arricchimento di ciascuno di loro, secondo quanto egli stesso decide, ne determina la coesione e la forza.
Se il pubblico non chiede cultura, è perché non ne ha bisogno?
No. Il pubblico scegli tra le cose che “conosce” o che gli vengono offerte. Se io non avessi mai mangiato una cheesecake agli agrumi, ne chiederei mai una al ristorante? Probabilmente no. La stessa cosa credo valga anche per la cultura. È compito, secondo me, della rete pubblica proporre un insieme di cose da cui poi ciascuno sceglie ciò che più gli dà soddisfazione. Va però anche detto che, se anche solo il 5% della popolazione desiderasse un certo tipo di servizio, se avrebbe comunque diritto. Forse potrebbe essere ridotto, se davvero la percentuale fosse così bassa, cosa di cui dubito, ma non tolto. Credo altrimenti si perderebbe la differenza tra pubblico e privato, cosa che, come ogni perdita di differenza, impoverirebbe il panorama radiofonico in generale.
Di Valeria Camia