Nel lontano 1952, la CBS adoperò per la prima volta un Remington Rand UNIVAC mainframe computer per realizzare delle proiezioni sulle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, così ebbe inizio l’era del cosiddetto computer-assisted-reporting o CAR. Pochi anni dopo, nel 1957, Walter Lang diresse il film “The Desk Set” (in italiano “La segretaria quasi privata”) con la coppia di attori Spencer Tracy e Katharine Hepburn nei ruoli principali. Il lungometraggio racconta la storia di Bunny Watson (Hepburn), responsabile del servizio ricerca, e di Richard Sumner (Tracy), un ingegnere elettronico che ha inventato un nuovo supercomputer chiamato EMERAC (Electromagnetic Memory and Research Arithmetical Calculator), capace di effettuare le stesse operazioni del servizio ricerca, ma in modo molto più veloce, efficiente e senza aver bisogno di pause. Il nuovo computer suscita ovviamente delle paure tra le impiegate del team di ricerca, Bunny Watson in primis, che temono di essere sostituite dalla macchina poiché l’azienda potrebbe, in questo modo, risparmiare soldi e ore di lavoro. Il film è affascinante perché anticipa tanti temi che riemergono quando si parla degli effetti dell’intelligenza artificiale nel campo giornalistico: infatti rappresenta un'istantanea delle ansie tecnologiche di chi lavora in un settore creativo che sembrava immune all’automazione, proprio perché accenna alla possibilità che le macchine sostituiscano gli umani. Affronta quindi le implicazioni organizzative e professionali del computer elettronico nelle redazioni.
Negli ultimi anni, un numero crescente di aziende mediatiche, tra cui diversi servizi pubblici, ha adottato il cosiddetto giornalismo computazionale che comprende l’uso di algoritmi e di tecnologia basata sull’intelligenza artificiale non solo per la ricerca d’informazioni, ma anche per la produzione e la distribuzione automatizzata di contenuti editoriali. Siamo quindi giunti a una situazione dove le macchine non vengono solo utilizzate per potenziare il lavoro giornalistico, ma la loro implementazione è diventata molto più pervasiva, concernendo tutte le fasi del ciclo delle notizie. Questa tendenza fa sì che sempre più decisioni editoriali vengano prese da algoritmi in modo autonomo, escludendo così gli esseri umani dal processo di selezione giornalistica. L’uso di questi strumenti stravolge radicalmente le pratiche editoriali tradizionali. Gli algoritmi hanno una natura paradigmatica, modificano le routine e i ruoli giornalistici, generando concezioni completamente nuove di ciò che è comunemente inteso col termine “lavoro giornalistico”, arrivando al punto di sostituire gli stessi esseri umani per scrivere e pubblicare articoli giornalistici. L’ubiquità con cui le aziende mediatiche usano algoritmi e processi automatizzati esercita quindi un potere trasformativo non solo sul workflow giornalistico, ma anche sul rapporto stesso tra essere umano e macchina.
Ad esempio, i dati sul consumo del pubblico permettono ai media di raccomandare degli articoli che potrebbero interessare gli utenti e quindi di personalizzare in modo sempre più mirato i loro contenuti. Da un lato, gli utenti possono beneficiare di un’offerta giornalistica più rilevante e di loro interesse. Dall’altro, c’è il rischio che i membri del pubblico, a causa degli algoritmi, finiscano in bolle mediali che contrastano il ruolo dei media di creare delle realtà collettive formando arene per il dibattito pubblico. L’intelligenza artificiale presenta quindi diverse opportunità per rendere l’offerta editoriale più attrattiva e la produzione giornalistica più efficiente. Ma allo stesso tempo comporta delle sfide, in particolare per quanto concerne aspetti come la trasparenza, la privacy e la responsabilità con cui determinate tecnologie vengono utilizzate. Il servizio pubblico deve giocare un ruolo pionieristico nello sviluppo e nell’applicazione responsabile ed etica di queste tecnologie.
Colin Porlezza, professore di giornalismo digitale all'USI