Parlare di cultura sui social con brevi video di pochi minuti. È possibile e funziona? Sì, perché la qualità non è una questione di quantità. Parola di Chiara Fanetti, che dopo una lunga e solida esperienza in radio (a Rete Due), da qualche anno è responsabile di Cult+, il magazine culturale online della RSI. Ci racconta che cos’è e come funziona.
Che cos’è Cult+ e come è nato?
“Cult è nato come trasmissione culturale televisiva (si chiamava Cult TV), che aveva un sito internet dedicato, in cui venivano caricati i contenuti. Quando la trasmissione televisiva è terminata, è rimasta la formula digitale. Oggi Cult+ è un progetto digital only (cioè produce contenuti destinati solo al digitale), che si muove su due piattaforme social, Facebook e Instagram, adattandosi ai diversi pubblici che li caratterizzano. I video si possono trovare anche su PlayRSI, che funge da vetrina e archivio”.
Quante persone lavorano per Cult+?
“Ci sono tre redattori, un digital content creator, una videomaker e io come capo edizione. Ognuno di noi collabora con percentuali di lavoro diverse e con altre offerte del settore digitale”.
Chi è il vostro pubblico?
“Il pubblico a cui ci rivolgiamo è un pubblico giovane, non è stabile e omogeneo ma in costante mutazione, come pure le piattaforme social, che evolvono rapidamente e impongono un costante adeguamento dei contenuti. Nonostante questo, è un pubblico che va raggiunto con contenuti di qualità, come prevede il nostro mandato di servizio pubblico. Il nostro scopo è anche quello di fare da ponte fra gli utenti del digitale e i vari altri contenuti culturali che offre la RSI. Il digitale ha il vantaggio di permettere un’interazione più immediata con il proprio pubblico. È un aspetto interessante perché consente di avere una percezione molto diretta di quello che piace agli utenti. Noi però non cerchiamo per forza l’interazione e non inseguiamo le tendenze delle piattaforme ma cerchiamo di offrire sempre qualità.”.
Di che cosa parlano i video e i contenuti di Cult+?
“Parliamo di chi fa cultura nella Svizzera italiana, di chi la fruisce, di chi se ne interessa e lo facciamo su vari livelli: i contenuti devono essere accessibili a un pubblico abbastanza ampio, con vari gradi di conoscenza del tema. Quindi da un lato diamo conto di quali sono le attività, le storie e i temi, dall’altro proponiamo contenuti su tematiche più nazionali e internazionali, mantenendo sempre il nostro linguaggio e la nostra chiave di lettura. Non andiamo a cercare l’argomento che funziona solo perché è un trend dei social. Però ci sono temi molto presenti sulle piattaforme che non possono essere ignorati, anche se cerchiamo sempre di trattarli con professionalità e qualità”.
Come collaborate con gli altri settori RSI?
“La collaborazione è intensa, a volte più puntuale a volte più strutturata. Un bell’esempio è Cliché, il nuovo magazine culturale televisivo RSI. Nelle puntate della prima edizione (primavera 2022) sono stati inseriti diversi contenuti digitali provenienti anche da Cult+. Per la seconda stagione, che andrà in onda il prossimo autunno, siamo andati oltre: ci è stato chiesto di creare contenuti ad hoc per la trasmissione e abbiamo quindi potuto partecipare anche a livello di linea editoriale. È interessante questa circolarità che permette la diffusione dei contenuti su diversi canali. Bisogna però fare attenzione ad alcuni aspetti tecnici, per esempio in Instagram i video sono sempre verticali, quindi se produciamo qualcosa già sapendo che sarà diffuso anche in tv, dobbiamo prevedere i formati adeguati per entrambi i canali”.
Che cosa vuol dire proporre contenuti culturali per i social, considerando che i temi spesso sono vasti e necessitano di approfondimento, mentre le piattaforme richiedono velocità e sintesi?
“È la stessa domanda che probabilmente si pongono anche i colleghi dell’informazione. I temi culturali non sono diversi da quelli di attualità: con lo stesso argomento si può fare una news flash del notiziario oppure un’intera puntata di Modem o Millevoci. Il lavoro non è diverso da quello che si fa in cronaca. Credo che sia solo una questione di abitudine e di preferenza del pubblico. Ed è una questione di formati, di supporto. Magari si adatta il tono e lo stile: ai giovani ci si rivolge in un modo diverso rispetto agli adulti. L’importante è garantire qualità in un luogo dove si trova di tutto, anche tanta superficialità”.
Una delle perplessità (o pregiudizio?) che riguarda la cultura sui social è il contrasto fra le tematiche, spesso complesse, e il tipo di linguaggio, che esige immediatezza, velocità e tempi brevi. Come è possibile veicolare argomenti di un certo spessore in pochi secondi senza risultare superficiali o banali?
“Per alcune persone cultura deve essere sinonimo esclusivo di approfondimento, per altre vuol dire tempo libero, curiosità, ma non è solo il web ad essere additato come una fonte di contenuti superficiali. Anche alcune trasmissioni televisive sono state criticate perché giudicate troppo leggere. Non è quindi il mezzo a fare la differenza, ma il tono, anche se è chiaro che oggi ci sono dei mezzi, come i social, caratterizzati da un diverso livello di attenzione degli utenti”.
Secondo te, in generale, quale deve essere il ruolo del servizio pubblico sui social?
“Proprio perché siamo servizio pubblico e rispondiamo a un mandato preciso, dobbiamo dar seguito alle esigenze del nostro pubblico. SSR continua a garantire un’ottima offerta lineare, ma c’è una grossa fetta di pubblico che non la segue più lì e va quindi raggiunto là dove si trova, dove si informa. Se è online, andiamo anche noi sul web e offriamo contenuti di qualità. Il nostro logo è e deve essere un marchio di qualità, di informazione fatta bene, qualunque sia il tema. Lo scopo è anche agganciare un pubblico giovane che poi magari in un secondo momento deciderà di approfondire un argomento andando a cercare contenuti provenienti dal lineare”.
Giorgia Reclari, segretariato CORSI