Negli ultimi mesi la stampa si è riempita di articoli “scientifici”. Non che prima di scoperte mediche, nuove terapie farmacologiche e strumenti diagnostici all’avanguardia non ne parlasse. La pandemia di coronavirus ha tuttavia ingigantito la mole di notizie legate al mondo della scienza nelle prima pagine dei giornali e nei palinsesti mediatici, sui social e in Internet. E se questa osservazione è sotto gli occhi di tutti, meno palese è la consapevolezza della qualità di quanto leggiamo. Così ci troviamo di fronte a bufale o notizie imprecise o sbagliate, senza accorgercene. Spesso prendiamo per buono, affidabile, vero quello che ci viene proposto, perché le informazioni arrivano da siti considerati autorevoli, le cui firme, però, troppo frequentemente sanno poco, pochissimo, di Scienza e danno spazio a voci note, che talvolta si improvvisano in esperti in ambiti scientifici che non sono loro propri. È una critica puntuale e amara, quella che arriva dalla giornalista scientifica Agnese Codignola, laureata in chimica farmaceutica, con un dottorato in farmacologia, collaboratrice, tra gli altri, di Repubblica e il Sole 24 Ore e autrice di libri di divulgazione scientifica.
“La stampa – dice la giornalista – dovrebbe svolgere un ruolo fondamentale come fonte informativa per la salute perché, di fatto, è l’unica mediazione possibile tra ricercatori, riviste, centri di ricerca, da un lato, e il pubblico, dall’altro. Senza il lavoro dei mezzi di informazione non arriverebbe quasi nulla al pubblico, anche perché, ricordiamolo, la comunità scientifica spesso non sa come comunicare o lo fa in modo piuttosto grossolano”. Tuttavia, la comunicazione da parte dei professionisti che lavorano nel mondo del giornalismo è – non di rado – imprecisa, con gravi ripercussioni in materia di salute pubblica. “Chi scrive di scienza a volte non ha le competenze per affrontare materie così complesse. La questione non è nuova e il Covid-19 non ha fatto che esacerbarla. La necessità di produrre articoli su articoli aventi come oggetto la pandemia ha fatto sì che redazioni, anche quelle rispettabili e serie, abbiano dovuto chiedere pezzi a collaboratori che fino a pochi mesi prima si occupavano di altro, moda, motori, economia, spettacolo”. Il problema, sottolineato da Agnese Codignola, quindi, è questo: l’impreparazione di base sulle questioni di scientifiche di chi scrive si rilette in un’incapacità di analisi critica (i dati spesso possono essere letti in più di un modo), di prospettiva storica (fondamentale per seguire l’evoluzione delle scoperte) e di verifica di quanto viene riportato nell’articolo; insomma, nei giornali leggiamo interviste a esperti che contengono domande mal poste, a volte sbagliate o testi che non approfondiscono certi aspetti scientifici fondamentali, proprio perché “chi scrive non sa di che cosa sta parlando e, di conseguenza, non sa cosa è opportuno chiedere”. I giornalisti, che non sono preparati in campo scientifico, rincorrono chiunque, purché medico – oncologi, biologi, clinici, tanto per fare alcuni esempi - dando loro voce ma senza essere in grado, se necessario, di rispondere in contraddittorio.
C’è poi un ulteriore problema, quello dei social media. “Io credo fermamente che non si possa parlare di scienza con un tweet e nemmeno con un post su Facebook, strumenti usati – e abusati – da giornalisti ma anche, spiace dirlo, da operatori nel campo medico”, afferma Codignola, che prosegue: “la complessità della scienza richiede una mediazione competente. Si devono produrre messaggi semplici e comprensibili ma non a scapito della complessità che caratterizza il mondo scientifico, la cui essenza è l’incertezza. Oggi invece assistiamo a un moltiplicarsi di articoli giornalistici, interviste e comunicati tramite social media che non contengono più domande – la base della ricerca e del progresso scientifico – ma offrono al lettore risposte a volte distorte, semplicistiche, semplificate”. Con la conseguenza che la mala informazione porta spesso a una sorta di panico generalizzato e scientificamente immotivato, com’è successo recentemente nel caso del vaccino Astrazeneca. Cosa che sarebbe potuta accadere anche per altri vaccini, dato che nei rapporti della farmacovigilanza italiana e anche di Swissmedic, ci sono segnalati decine di decessi avvenuti, temporalmente, dopo la somministrazione del vaccino Pfeizer; come constata Agnese Codignola, se questa informazione fosse stata data dalla stampa – senza tenere in considerazione, ad esempio, dell’età e di malattie pregresse dei deceduti – il vaccino a mRNA avrebbe forse fatto la fine di quello a vettore virale. Con distruttive conseguenze per il contenimento del virus e la gestione della pandemia.
Ma, allora, come fare per contenere questa deriva della stampa e avere una comunicazione mediatica su tematiche scientifico-sanitarie che sia corretta? Prendiamo ancora il caso, attualissimo, delle vaccinazioni contro il coronavirus. “È normale – chiarisce Codignola – che quando si vaccinano milioni di persone, qualcuno possa avere effetti collaterali. La stampa ha il dovere di comunicare correttamente e rendere note eventuali conseguenze ma sempre citando i fatti, le fonti e, nel caso del Covid-19, il contesto medico dei pazienti vaccinati (come eventuali malattie pregresse o l’utilizzo di altri farmaci contemporaneamente al momento della vaccinazione). Per fare questo, è fondamentale, anzi necessario, formare giornalisti che siano capaci di consultare le fonti originarie, cioè la letteratura scientifica, capendo quanto vi è contenuto, per poi produrre articoli divulgativi utilizzando un lessico appropriato, preciso, equilibrato, e affrontando i problemi realmente cruciali, il cuore delle questioni”. Quindi chi lavora in campo giornalistico, tanto più chi scrive di scienza, non dovrebbe mai smettere di aggiornarsi. Ci vuole voglia e ci vuole tempo, ma la posta in gioco è alta e gli effetti di una cattiva comunicazione in temi di salute sono potenzialmente devastanti. Non ha dubbi Agnese Codignola: “Questa è la mia battaglia: noi giornalisti dobbiamo approfondire l’origine delle informazioni che proponiamo ai lettori, i quali, poi, sono comunque chiamati a fare la propria parte, approfondendo le notizie e, soprattutto, senza pretendere dai media risposte scientifiche indiscutibili – men che meno con un tweet!”
Insomma, il mondo dell’informazione, e ancor più il servizio pubblico radiotelevisivo che voglia essere di qualità, può, e deve, essere un alleato nel diffondere i temi più importanti della salute presso l’opinione pubblica. La validità di questa alleanza risiede in larga misura anche nella capacità dei giornalisti di fare bene il loro lavoro. “Ogni parola che scegliamo conta. Non è una questione di buona o mala fede. Ma di competenze e conoscenze” – conclude la giornalista.
Di Valeria Camia