La mia professione mi porta spesso nelle scuole, a lavorare per qualche ora in aula spalla a spalla con i docenti. Negli ultimi mesi, grazie al progetto LOIS (www.loisresearch.org) ho incontrato diverse classi per discutere di ricerca di informazioni in rete. Quei momenti sono occasioni per raccogliere impressioni, stimoli e idee da tradurre in progetti di ricerca e innovazione didattica nell’ambito media e tecnologie.
In una di queste occasioni, poco prima di entrare in un’aula di liceo, il docente mi ha detto pressappoco così: “Molti nostri allievi cercano e trovano informazioni in rete con grande abilità, le copiano nel loro lavoro, magari anche rielaborandole – ma non imparano. Risolvono il compito, ma alla fine di tutto ne sanno esattamente quanto prima”. Un aneddoto simpatico (forse leggendario, ma non del tutto improbabile) completava il quadro: uno studente consegna il lavoro di maturità, che lo ha impegnato per due semestri, e il docente scherzosamente chiede: “Ma lo hai letto?” e lui risponde “Non ancora tutto”.
Questa osservazione e la storiella della consegna mi sono tornate in mente diverse volte durante i giorni seguenti. In effetti, da un punto di vista pratico gli studenti sono molto razionali: vengono valutati per la soluzione di un compito (consegnare un elaborato, rispondere a delle domande), quindi cercano le informazioni che gli servono e le “impacchettano” nel formato richiesto. Se lo fanno bene, ottengono una buona valutazione con il minimo sforzo – che è la strategia più efficiente.
Il punto è che la scuola non è pensata (o non dovrebbe essere pensata) in funzione dei voti, ma dell’apprendimento. Anzi, i voti dovrebbero testimoniare proprio che uno ha imparato, cioè ha fatto un lavoro per cui alla fine ne sa più di prima, è, almeno in parte, una persona diversa. Se uno ha imparato qualcosa, sa qualcosa: nella nostra lingua usiamo il verbo sapere, che è imparentato con la parola sapore. Una persona che ha imparato ha un sapore diverso, migliore.
Il fatto che si possano prendere dei buoni voti senza realmente imparare, a mio parere, mette in evidenza un problema nel nostro modo di fare scuola. La grande paura che gli studenti possano “fregare” la scuola grazie a sistemi di intelligenza artificiale come ChatGPT nasce proprio dall’abitudine ad affidarci sistemi di valutazione che non presuppongono di valutare persone ma ripetitori di informazioni.
Il teorema di Pitagora
Qualche settimana dopo mi sono trovato con un gruppo di docenti di scuola elementare. Lì si parlava di internet, social network e sicurezza ma, nella discussione, una docente di quinta elementare mi dice: “I miei allievi mi chiedono sempre più spesso perché devono imparare qualcosa, ad esempio il teorema di Pitagora. Tanto, nel caso gli servisse, basta che lo cerchino e lo trovano subito.”
Anche questa osservazione mi ha fatto riflettere, forse perché era l’eco, con bambini molto più giovani, dello stesso tema. In questo caso possiamo trovare alcune risposte semplici. Ad esempio, potremmo dire a questi allievi che su Google possiamo cercare in maniera efficiente solo ciò di cui conosciamo l’esistenza, per cui dovremmo almeno sapere che esiste il teorema di Pitagora e a che cosa serve; cioè, dobbiamo almeno saper formulare buone domande. Oppure potremmo spiegare che alle volte le informazioni servono subito e non c’è il tempo per cercarle nemmeno con Google, come per fare una respirazione cardiopolmonare. O ancora, che certe conoscenze non sono informazioni, ma atti pratici, che devono essere provati e riprovati tante volte prima di poter dire di saperli eseguire, come per suonare uno strumento musicale.
Però, in fondo, anche in questo caso gli allievi e le allieve hanno in parte ragione. Ci sono un sacco di informazioni che sono facilmente a portata di click: perché dovremmo fare la fatica di impararle? Dobbiamo davvero sapere a memoria la data di nascita della Confederazione? O le capitali europee? O le definizioni dei concetti matematici? La lista potrebbe allungarsi molto. Potremmo anche chiederci se la scuola dovrebbe allora solo insegnare ciò che non possiamo scoprire visitando Wikipedia, Treccani Online o il sito della NASA. Se li guardiamo così, i programmi scolastici potrebbero sembrarci piuttosto obsoleti, anche se sono scritti “per competenze”.
Per provare a capire meglio mi sono permesso di discutere il tema con diversi docenti e con alcuni abbiamo trovato un caso limite: l’apprendimento delle lingue, che poi è uno degli assi portanti della nostra scuola. Se esistono i traduttori automatici, ed è facile prevedere che in futuro queste tecnologie diventeranno sempre più potenti, perché mai dovremmo imparare francese, tedesco e inglese? A livello funzionale, possiamo già ora tradurre qualsiasi testo con Deepl, ed è verosimile che tra qualche anno avremo anche traduttori in tempo reale per il parlato.
Dovremmo forse chiederci se imparare una lingua significhi solo sapersela cavare nella lettura, scrittura e comunicazione orale. Cioè, se impariamo una lingua solo per motivi pratici e funzionali. Se la risposta è sì, gli allievi hanno ragione: imparare una lingua è fatica sprecata, perché la tecnologia lo farà per noi. Imparare una lingua ha però anche un altro valore: quello di portarci a vedere il mondo e a ragionare in maniera diversa. Sapere il tedesco (avere in sé quindi un po’ del sapore tedesco) significa imparare a percepire il mondo con occhi diversi – per fare un esempio banale, capire che non esiste solo “la salsiccia”, ma ne esistono tipi infiniti, almeno tanti quanti per gli italogoni la pasta (che non è solo Nudeln); ma anche riflettere sul fatto che essere soddisfatti o felici (zufrieden) ha a che fare con la pace (Frieden).
La videocamera di parcheggio
Qualche giorno fa sono invece stato invitato alla Scuola Cantonale di Commercio. Anche qui, una delle docenti con cui ho lavorato aveva ricevuto un’osservazione simile: perché dobbiamo imparare a selezionare criticamente le informazioni se Google e ChatGPT lo fanno per noi in una frazione di secondo? Nel dialogo con i suoi studenti questa docente aveva usato un paragone interessante. Aveva raccontato che per anni aveva continuato a guidare un’auto senza assistente di parcheggio: sapeva di avere facilità nell’effettuare manovre in retromarcia, e le piaceva così. Di recente, però, aveva dovuto cambiare auto, e ormai tutti i modelli hanno la videocamera posteriore; si era dunque adeguata a usarle, e le aveva in effetti trovate molto comode (chi direbbe il contrario?). Dopo qualche mese, però, si era accorta che si sentiva a disagio all’idea di dover fare un parcheggio laterale senza videocamera. In qualche maniera, la sua abilità nella retromarcia si era atrofizzata.
Non abbiamo tutti fatto la stessa esperienza con il navigatore e il senso dell’orientamento? O con il correttore automatico e la correttezza ortografica? O addirittura, con la calcolatrice e la capacità di calcolo mentale? Ogni comodità tecnologica ci spinge dolcemente a “mettere in pensione” determinate facoltà umane – e nel caso delle tecnologie digitali, si tratta spesso di facoltà cognitive, cioè di uso della nostra mente.
Certo, non tutte le facoltà cognitive sono uguali: saper moltiplicare a mente numeri di tre cifre è una cosa, interrogarsi sulla veridicità di un’informazione è un’altra. Si potrebbe però forse dire che l’anelito alla conoscenza, il desiderio di sapere e la capacità di imparare sempre, unitamente al senso critico, siano qualità che ci contraddistinguono come essere umani, cioè sono parte essenziale della nostra umanità. Come sarebbe una persona completamente soddisfatta della propria ignoranza e disposta ad ammettere tutto e il contrario di tutto?
E allora il web?
Dovremmo allora considerare il web come una grande trappola, che passo dopo passo silenziosamente ci priva della nostra umanità? Internet e tutte le tecnologie digitali offrono opportunità di rispondere a bisogni concreti – il dialogo tra i popoli, l’assistenza sanitaria, l’accesso ai mercati, le esplorazioni spaziali, la ricerca scientifica, la lotta all povertà – ma sta a noi adoperarle in maniera saggia. Le tecnologie stesse, come la Storia ci ricorda di continuo, non contengono alcun principio di saggezza: il progresso tecnologico, per quanto rapido e continuo, non ci porta nemmeno un passo avanti nel diventare migliori come essere umani. La conoscenza stessa può essere usata per fare il bene o il male: è una decisione della libertà di ognuno, e delle comunità umane collettivamente.
La scelta è se essere usati dalle tecnologie o diventare soggetti attivi che le usano per un fine. Nel secondo caso, Google, ChatGPT e la marea di informazioni del web diventano risorse che possiamo imparare a domare e a ordinare per conoscere il mondo. La scelta e la cura di fonti di informazione affidabili – fonti legate alla ricerca medica nell’ambito della salute, fonti istituzionali quando si tratta di dati ufficiali, o canali d’informazione di qualità come il servizio pubblico, ecc. – sarà allora come la costruzione di una rete di fari di orientamento per trovare una via sicura.
Luca Botturi, professore in media in educazione alla SUPSI