Prosegue, con il terzo contributo, la rubrica della CORSI che mira a dare voce ai giovani. Vi proponiamo la riflessione di Thomas Martinelli in merito alla gestione del tempo online e all’utilizzo dei social media come metodo di informazione.
Rubrica a cura di Daniela Beretta
Solitamente, per quanto riguarda notizie, inchieste giornalistiche e commenti sull’attualità preferisco informarmi direttamente online, evitando social media e video-riassunti. Vorrei provare a spiegare perché lo faccio.
Inizio questa riflessione dal mondo dei social (Twitter, TikTok e Instagram per primi) intesi qui come luoghi di comunicazione breve e veloce, e a basso attrito di fruizione. Con quest’ultima espressione intendo la facilità tanto di accedere a queste applicazioni quanto di rimanerci: abbiamo ormai sempre il telefono a portata di mano (se non già in mano), bastano pochissimi tocchi, dopodiché l’unica azione richiesta per continuare ad usarle è muovere un singolo dito; inoltre, la breve durata dei contenuti richiede un costante cambio di attenzione, distrae ripetutamente e genera frequenti rilasci di dopamina che possono creare una quasi dipendenza. In ogni caso, mi pare ovvio, il fine è catturare l’attenzione degli utenti il più a lungo possibile.
E i social ne approfittano: più tempo viene loro dedicato, più sono le pubblicità visualizzate e quindi maggiori i guadagni. Ma non intendo criticare il diritto di un’azienda privata di fare i propri interessi, anche economici. I social non sono obbligati a fare il bene del mondo.
Ciò di cui mi preme parlare sono invece altre due questioni.
Primo. Questi eccellenti meccanismi di “cattura” rischiano di far perdere controllo del proprio tempo. I social esigono il nostro tempo - si allargano ovunque possono, tracimano anche dove non vorremmo - e se consideriamo il tempo come unità di misura assoluta della vita (come fare altrimenti?), allora perderne il controllo non è di certo auspicabile. È certamente giusto e sano dedicare parte del proprio tempo a occupazioni leggere o al puro intrattenimento, ma è anche importante essere consapevoli di ciò che si fa: gestire coscientemente i momenti dedicati a queste attività ed evitare che siano loro a controllare noi. I social media però, come abbiamo visto, sono costruiti appositamente per eludere queste difese, e il loro uso, trovo, richiede una maggiore vigilanza.
Secondo. I social, con la necessità di richiamare costantemente l’attenzione proponendo ogni pochi secondi nuove e brevi “unità di intrattenimento”, impediscono la trasmissione di qualsiasi testo scritto e lungo, con argomentazioni o spiegazioni, che sarebbe invece troppo “pesante” per viaggiarvi. Ma il luogo di un tale discorso, curato e accurato, è altrove, si direbbe giustamente. Infatti, questo problema non si porrebbe su così larga scala (ma potrebbe comunque disabituare all’attenzione prolungata) se la brevità del contenuto fosse applicata solo all’ambito dell’intrattenimento, ma non è così: al giorno d’oggi tutto il mondo è sui social. Se un’azienda, un’istituzione, un giornale o una persona desiderano visibilità, è lì che devono recarsi; se hanno bisogno di restare rilevanti per il proprio pubblico, o trovarne di nuovo, e continuare ad avere guadagni, è lì che possono farlo.
Tuttavia, quando si tratta di scienza, divulgazione scientifica, critica d’attualità, inchiesta giornalistica, o altro tipo di approfondimento che necessitano un’esposizione tramite testo scritto e lungo, il compromesso con la comunicazione tipica dei social può secondo me indebolire i discorsi e le idee affrontati. Le pillole di informazione – molto diffuse sono quelle di stampo divulgativo-scientifico, ma anche gli scoop e le brevi notizie “giornalistiche” sono particolarmente virali – non sono vera conoscenza; il ragionamento e lo studio delle fonti sono fondamentali per comprendere l’intricata realtà che ci circonda, e non è ragionevole richiedere che tanto lavoro sia riassunto in un breve video “informativo”. Non è un caso che le fake news abbiano facile circolazione ma pessimi risultati: catturano l’attenzione, sono brevi e veloci ma imprecise e inaccurate; sono perfette per i social ma non descrivono davvero la realtà.
La conclusione che mi pare si possa trarre è quella di lasciare ai social ciò che è dei social (socializzazione, intrattenimento, pubblicità…), e di dedicare del tempo all’approfondimento, cercandolo dove è possibile di prestare calma e attenzione, senza richiedergli una lacunosa brevità. Ciò che mi sembra preferibile, cioè, è saper creare una suddivisione più netta delle due parti, dei luoghi in cui si fa informazione e discussione online: investire nei social in campo di pubblicità e visibilità, ma rinviare, per una migliore comprensione della realtà, a un posto che sia diverso, soprattutto scritto e, perché no, lungo e approfondito.