Continua la rubrica della CORSI che mira a dare voce ai giovani. Vi proponiamo il contributo di Edoardo Simonato, dottorando in letteratura italiana all'Università di Friburgo.
Rubrica a cura di Daniela Beretta
Mesi fa ho appreso che David Remnick, giornalista premio Pulitzer nel 1994 e capo redattore del New Yorker (la rivista più importante del mondo? diciamo di sì), non possiede un account su Twitter né su Facebook. Il che lo rende una specie di panda albino nella giungla delle star del giornalismo internazionale, cartaceo e televisivo. In un’intervista del 2015, alla domanda "perché?", Remnick ha risposto: "Non uso twitter perché ho notato che i giornalisti lo usano solo per farsi pubblicità − che noia − oppure per concetti superficiali (“half-thought-out”) che dovrebbero sviluppare meglio in articoli più ponderati.". Io vengo dall’Italia, e di giornalisti anche importanti, con milioni di follower, che alimentano il proprio ego postando pensieri “half-thought-out” sui social ne ho in mente un po’. Non è raro vederli impegnati in botta e risposta infiniti e autoreferenziali con colleghi e utenti, oppure occupati a blastare i propri haters (il dio dell’italiano mi perdoni) con offese spesso indegne di loro.
Avendo in mente questo spettacolo, da quando sono in Svizzera devo dire che apprezzo viceversa il basso profilo social dei giornalisti RSI, specie di quelli che si occupano di inchieste e cronaca politica (i programmi che seguo di più). In preda a un istinto tutto italiano, tempo fa ho cercato sui social i profili dei conduttori di Il Faro, Il Quotidiano, Democrazia diretta, Patti chiari, così, per farmi un po’ gli affari loro, per capire come la pensano: quando ho visto che non saltava fuori quasi nulla, se non qualche profilo privato il cui ultimo aggiornamento è una foto di famiglia del 2017, confesso che ho provato un sollievo difficilmente descrivibile, ma di cui proverò a spiegare le ragioni.
Innanzitutto, e sarò forse troppo novecentesco, sono ancora convinto che i social siano qualcosa di più vicino a un gioco che a una cosa seria. E dunque, in qualche modo, immaginare che il capo redattore di La1 nel tempo libero si gode la vita, legge, sogna, va a pescare con gli amici, invece di litigare su Twitter con BigWolf97 o LadyOscar83, che ne so, a proposito di Greta Thunberg, mi fa dire: "è una persona seria", mi infonde un senso di professionalità. Internet è pieno di anonimi scemi (credo di non rivelare niente di nuovo) e le persone con cui discuti ti qualificano. Quanto a me, il giorno in cui vorrò sapere cosa ne pensa il capo redattore di La1 sulla Thunberg gli scriverò una civilissima mail, o attenderò che ne parli lui in sedi più opportune.
Secondo. Se tu, giornalista, stai tutto il giorno a parlare di te e delle tue opinioni sui social, dove io posso leggerti gratis alla velocità di una scrollata di schermo, che motivo avrò di comprare con i miei soldi il giornale dove scrivi, o di seguire per intero il tuo programma in TV? L’idea che i social servano a “catturare” il pubblico del web per portarlo alla TV/carta stampata, o che i due universi, web e tv, debbano per forza incontrarsi in nome della modernità, mi è sempre sembrata un controsenso, anche perché non c’è evidenza che funzioni. Twitt-star del giornalismo politico scrivono su giornali o partecipano a programmi in continuo calo di lettori/ascoltatori; l’intervento dello studente che mi ha preceduto dimostra che chi si informa sul web sa benissimo cosa cercare e dove, non ha bisogno di vederlo in TV. Che sia forse meglio, allora, diversificare l’offerta? In questo senso, mi sembra intelligente in tentativo della RSI di creare contenuti web che seguano le logiche del web (RSI spam, RSI Edu), e programmi TV che seguano le logiche televisive. Non è giornalismo, ma per dire: chi, se non la TV, può ancora prendersi il rischio di mandare in onda un programma, splendido, sulla raccolta dei funghi? Quante views avrebbe fatto una cosa del genere su YouTube? (Io, ripeto, l’ho adorato. Io, che sono il camminatore in montagna più pigro del globo. Vi prego: voglio la seconda stagione).
Terzo. I tempi. La placida lentezza di alcune prime serate di informazione svizzere è un tocca sana per chi è abituato ai social. I social, twitter soprattutto, abituano alla velocità. La discussione di ieri è superata dallo scandalo di oggi. All’intervento di un giornalista che contiene più di una subordinata, la gente risponde "ma chi ti credi, Dostoevskji?". E invece la complessità a volte è necessari, video “reel” di due minuti non sono sempre sufficienti. Eppure, almeno in Italia, si vedono sempre più giornalisti che tentano di importare questi ritmi twitteriani-instagrammiani (televisivamente insostenibili) nelle loro trasmissioni. Penso a una giornalista televisiva, famosa per chiedere in continuazioni ai suoi ospiti interventi che siano “telegrafici”: un eufemismo per ricondurli al limite dei 280 caratteri. Nella tv di informazione svizzera questo mi sembra accada meno: forse anzi si eccede in senso opposto, ma non tutto deve essere sempre intrattenimento. E se anche la noia, talvolta, fosse un pregio?